Crisi economica? No, culturale

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    www.legnostorto.com/index.php?optio...k=view&id=35405
    Questo saggio breve di Enrico Francot, analista juighiano, solleverà qualche stupore e forse anche qualche contrarietà: non siamo avvezzi ad analisi che attraversano zigzagando concezioni e valutazioni che siamo abituati a vedere, nei discorsi “politici”, più rigidamente apparentati a questo a quel filone di pensiero, quando non a “famiglie ideologiche” distinte e magari distanti. Sarà quindi difficile per molti – anche per chi scrive – sottrarsi alla tentazione di formulare una serie di puntualizzazioni e di “distinguo”, come si è tentati di fare quando si naviga in terra incognita e si cercano riferimenti solidi e conosciuti.
    Ma è una lettura che fa pensare, e che potrebbe aprire una discussione su un tema che, almeno nei suoi termini generali, non può che trovarci tutti d'accordo: la crisi che ci sta colpendo è prima di tutto culturale.
    MC
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    La crisi viene detta economica dai più. Se osservata da un’ottica di analista archetipico è piuttosto una crisi culturale dell’Occidente. Intendo soffermarmi su due componenti di tale crisi: la trasformazione del denaro da strumento di scambio in commodity, in materia prima, e lo snaturamento del profilo del maschio.

    Sullo sfondo si delinea netto lo scontro in atto – per quanto ostinatamente negato da taluni maestri di pensiero – tra due religioni, tra l’Islam monoteista e iconoclasta, da un lato e, dall'altro, il Cristianesimo, politeista e iconodipendente.

    Il maschio snaturato nasce e cresce nella cultura di taluni popoli occidentali Italia, Spagna, Francia e Grecia in particolare. È una conseguenza di una visione della vita e del mondo in quei popoli.

    È una conseguenza dall’eccesso di materno – forma patologica della pietas materna, forse nata dalla memoria degli anni duri della Seconda Guerra mondiale. Si trasmette alle figlie, clonandole, e si traduce nell’infiacchimento del maschio.

    L’eccesso materno si inizia con gli effetti rilassanti della ricostruzione conclusasi alla fine degli anni Sessanta. Si accentua con la fine dei pericoli della Guerra Fredda agli inizi degli anni Novanta.

    Sono gli anni in cui viene gradualmente abolita la leva militare, grande strumento di maturazione e sfida fisica con disciplina – e non da Curva Sud – tra i maschi. Peggio: non c’è più rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta – che nelle culture anglosassoni e nordiche in genere viene sostituita con l’ingresso agli studi superiori o nel mondo del lavoro mentre in molte zone mediterranee viene saltata.

    Lascia così i giovani maschi in balia delle madri sovraprotettive. La loro visione? Eccola: «Il mio bambino? Deve avere un contratto a tempo indeterminato! Fa il fannullone? Pazienza! Va perdonato. È uguale a tutti gli altri che lavorano in ditta!». Col mito del contratto a tempo indeterminato – caro a tutti gli schieramenti politici dello Stivale – il ragazzo deve restare tra le pieghe delle gonne di mammina per tutta la vita.

    Nel medesimo quarantennio viene resa obbligatoria la scolarità fino ai diciotto anni. Altro risultato è l’inevitabile abbassamento del livello culturale medio. Con la concessione del voto a diciotto anni, sul corpo docente si fa schiacciante il potere dei ragazzi – in realtà adulti con tutti i diritti civili. I politici esaltano la mediocrità: i voti si contano, non si pesano.

    Accarezzando i ragazzi e le loro mammà, conquistano seggi nei Parlamenti uomini dappoco, assetati del potere e del denaro che le cariche portano in dote. Sistemano a decine di migliaia i loro sponsor in tutte le attività – dal cinema alle discariche. Con strabismo statistico si parla di disoccupati tra i 15 e i 25 anni quando si sa che dalle scuole si esce a 19.

    Nel patto scellerato tra elettori ed eletti, il rapporto con la fatica dell’Opus e con la qualità si attenua fino a farsi esile, evanescente. Non conta il come, conta il quanto.

    Grazie alla mutazione dalla qualità alla quantità, agli inizi degli anni Ottanta il liberismo si imbarbarisce e irrompe sui mercati. Il quanto cambia pelle: da merceologico si fa finanziario. I ragazzi più svegli si buttano nella finanza. Il Big Bang della Borsa di Londra trasforma gradualmente la moneta in commodity, cioè in materia prima. La moneta diventa come il grano, il ferro, e come qualsiasi fonte di energia, carbone, petrolio, gas naturale… e via elencando: ferro, uranio manganese… Si può vendere e comprare come le commodity mentre è in viaggio.

    Ecco il secondo aspetto dell’imbarbarimento culturale. La moneta perde la propria funzione originaria di agevolatrice degli scambi. Non è più una garanzia – un simbolo quasi – di qualcosa di reale che raffigura.

    In mano a un popolo di scommettitori come gli Anglosassoni, il distacco si accentua. Oggi l’attività speculativa sulla moneta-commodity rappresenta una percentuale sul Pil della Gran Bretagna tra il sette e il quindici per cento, a seconda delle fonti. Si aggira sul valore della voce turismo in Italia (altra attività parassitaria se si pensa che ne vivono milioni di abitanti lungo gli ottomila chilometri di coste: una lobby potentissima).

    Dai giorni del Big Bang, quindi da quarant’anni, gli Stati Uniti si sono posti all’inseguimento dei meccanismi operativi della Borsa di Londra per non perdere uno strumento della loro potenza strategica nel mondo attraverso la Borsa di New York.

    A Londra resta invece tattica di piratesco arricchimento nella tradizione di un popolo che, secoli addietro, ne ha fatto le basi per la costruzione di un impero. È una tradizione che agli Statunitensi manca: mai hanno occupato un territorio straniero – se si esclude, per i pignoli, l’acquisizione del Texas.

    Oggi la Borsa di Londra possiede, tra le altre, la Borsa di Milano, di fatto come unico azionista. In pochi lo sanno.

    Quando i centri di malaffare vanno in tilt, gli Stati corrono in loro soccorso, perché sono in ballo motivi strategici e macro-economici. In contrasto profondo con il loro conclamato liberismo, sottraggono enormi risorse a funzioni di sostegno all’economia reale. La menzogna ha ancora una volta il sopravvento in una distorsione culturale che vede la finanza al primo posto anziché il benessere del popolo, che dovrebbe essere il fine dell’amministrazione della cosa pubblica.

    Se i materialisti storici vogliono capovolgere questa prima analisi trasformando causa in effetto ed effetto in causa, liberi di farlo. I nessi restano in piedi e questo aspetto della crisi economica – cosiddetta – resta se non chiarita, analizzata almeno nelle sue componenti storiche.

    E aggiungo, anche nelle sue componenti archetipiche. L’avere e l’apparire – manifestazioni del quanto – si costella in modo vieppiù potente dell’essere e del contenere – aspetti dell’essere. Non si sottrae nemmeno la Chiesa di Roma negli anni dominati dall’imago di Giovanni Paolo II. Al punto che poco viene capito il suo successore Benedetto XVI, pontefice di contenuti teologici.

    Il mammismo mediterraneo si sposa spesso al buonismo protestante. Esso domina negli Stati di New York, Illinois e California (con Hollywood), arbitri di fatto delle elezioni di tutti i presidenti democratici, da Kennedy in poi. Su posizioni analoghe si pongono numerosi ambienti accademici inglesi e nordeuropei, Norvegia, patria dei Nobel per la pace, in testa.

    In una visione distorta del Luteranesimo – e del Cattolicesimo – più cinicamente ci si comporta, più buoni – e politicamente corretti – bisogna apparire. La doppia morale è di rigore. L’effimero è l’icona del giusto. Ma siamo lontani anni luce dal kalos kai agathos, dal bello e giusto, dal bello in quanto valoroso, giusto.

    Nel vuoto di contenuti si inserisce l’Islam, movimento etico-politico oltre che religioso fin dalle proprie origini.

    In una visione del potere effimero che nasce dall’ignoranza storica, il mondo arabo non viene più visto soltanto come terra di conquista coloniale – da Napoleone in poi – né, in seguito, come mero fornitore di petrolio, ma come interlocutore politico. È un errore. Lo capisce decenni fa l’Unione Sovietica che appoggia il dittatore Nasser, ma non lo vedono come tale gli Europei occidentali che, ancora ieri, si inserisco sbagliando alla grande nella crisi libica. I politici europei non hanno gli strumenti culturali per comprenderlo. Non conoscono le vere dittature, se si esclude l’abominevole periodo del Nazismo che, giustamente, aborrono.

    L’Unione Sovietica di ieri, invece, come ieri l’altro l’Impero degli Zar e, oggi, la Federazione Russa sanno per propri archetipi costellati da millenni che le masse si governano con il decentramento del potere assoluto. Sanno anche che per farlo funzionare occorre un potere altrettanto assoluto nelle province – e la concessione di possibilità di arricchimento a chi le governa. Se mi è consentita una parentesi, ciò sta ottimamente riuscendo anche alla Cina cosiddetta comunista.

    In realtà sono sistemi feudali (o Romani, chi non rammenta Verre in Sicilia?) che operano benissimo interagendo tra loro. Dove invece manca un forte potere centrale, come tanto per fare un esempio in Ucraina (e nel tardo Impero Romano), alla corruzione dei satrapi non si associa un graduale benessere della popolazione. Gli oligarchi diventano sempre più ricchi, le masse sempre più povere.

    Aggravante europea: l’immischiarsi in Medio Oriente è stato usato da vari Stati come strumento di lotta tra loro, la Francia fondamentalmente filosovietica, filoamericane invece la Gran Bretagna, la Germania, finché divisa, e l’Italia, ma quest’ultima con la quinta colonna comunista di cui dovere tenere conto.

    Abbacinati dal falso mito della democratizzazione, tutte soffiano da oltre mezzo secolo sul fuoco dell’Islam, fuoco da sempre o sotto le ceneri o ben ardente dai tempi dei conflitti tra Omayyadi e Abassidi, tra Damasco e Baghdad – oltre mille anni addietro – e oggi, come ieri, tra Sunniti e Sciiti, nonché tra Musulmani tiepidi e Salafiti bollenti. Musulmani laici non esistono. Quando si manifestano non sono più Musulmani, come non sono più Cristiani coloro che negano Cristo. Il Cristiano laico è un aborto culturale dell’Italia. Se è religio – stretta osservanza delle regole –, non può essere violazione della catechesi.

    L’infiacchimento maschile mediterraneo, il cinismo luterano sposato al machiavellismo di Londra e Parigi e gli eventi mai sopiti e mai ben compresi in Europa nella Storia dell’Islam hanno consentito una lenta penetrazione dei Maomettani nei gangli dell’economia europea e della sua stessa vita quotidiana.

    A milioni si sono inseriti nella manovalanza rifiutata dai giovani virgulti Occidentali; nell’imprenditoria, per questi ultimi troppo rischiosa; nella finanza, ché mantenere nella bambagia milioni di poco volonterosi costa denaro. Porta a indebitamenti degli Stati. Più sono fiacchi i suoi abitanti, più il debito pubblico cresce. In questa fame di latte per ragazzi viziati, si è immessa prepotentemente anche la Cina, altra cultura dove il rispetto per il potere e il senso del dovere sono innervati da millenni – Confucio docet. L’ingresso della Cina nel Wto, la sua spericolata politica valutaria, la dipendenza occidentale dalla sua realtà manifatturiera hanno agevolato la sua potenza mondiale.

    Dietro le masse musulmane infiltratesi in Europa ghigna beffardo il traffico di essere umani e lo sfruttamento di individui assunti in nero quando non per traffici illeciti a vantaggio di grandi criminali – spaccio di stupefacenti – e di piccoli quanto numerosi capitalisti – proprietari di ristoranti e imprese stagionali. Gli uni alleati agli altri sotto le bandiere di un falso umanismo. In realtà è tutta gente disposta a vendersi l’anima e il futuro dei figli per accumulare il maggior numero di simboli di ricchezza.

    E torniamo – anche così – contrasto tra l’apparire e il contenere.

    Il Musulmano è sanamente religioso nella suo rapporto con l’apparire. In lui non c’è conflitto tra essere e avere, tra apparire e contenere. Se è ricco vive da ricco, se è povero vive da povero. In questo senso è monoteista e iconoclasta. Non compra borse di Armani taroccate, semmai le vende agli Occidentali affamati di firme. I rubinetti dei suoi palazzi sono d’oro massiccio: non si sognerebbe di installarne placcati in oro. Il misero attinge acqua dal pozzo.

    L’economia dell’Arabia Saudita e degli Emirati è tenuta in piedi da Palestinesi e da cittadini di altri Paesi arabi, che si comportano come gli emigranti italiani in Belgio, Francia, Germania ai tempi: rispettando le leggi delle nazioni ospitanti, cristiane. Come quelli allora, gli Arabi stranieri sono omeopatici alle strutture pubbliche – laiche e religiose – che li ospitano nel mondo musulmano. La comune religione rendeva gli ospiti europei omeopatici con gli ospitanti europei. Non è il caso dei Maomettani in Europa occidentale – Turchi, Pachistani, Arabi. Gli irrisolti conflitti nella ex Jugoslavia ne sono la più recente conferma.

    Non è possibile sanare conflitti tra divinità. Esse si servono, immancabilmente, di essere umani nelle loro guerre. Su questo conflitto tra dèi non è qui il caso di soffermarsi. Se l’argomento è di interesse, non mancherò di tornarci. Esso implica un esame degli archetipi sottostanti.

    Basti qui rammentare che il popolo islamico è un popolo di guerrieri che non può non mantenere distanza da, quando non disprezzare, i non guerrieri.

    Non l’ha capito neanche il premio Nobel per la pace Obama che, non a caso, ha mantenuto lo staff bellico di Bush, e pochi mesi dopo essere stato nobelizzato a Oslo, ha mandato i suoi aerei a bombardare la Libia.

    L’odio feroce dell’Islam per gli Stati Uniti nasce forse proprio dal fatto che esso riconosce come veri soldati gli uomini sotto i suoi vessilli.

    La cultura di un popolo sopravvive se ha un senso del pericolo esterno e lo sa affrontare. Così è stato per i Tedeschi durante la guerra fredda, per i pochi Francesi di De Gaulle durante la Seconda Guerra Mondiale, per chi rifiutava il Comunismo di stampo sovietico in Italia. I maschi fiacchi non hanno nemici. Hanno concorrenti nelle Borse e avversari con cui battersi nella partite i calcio, senza divisa, come senza divisa è il terrorismo che odia e uccide.

    Uscire dalla crisi cosiddetta economica di oggi, non vuole dire, per i popoli con gli uomini più fiacchi, diventare sempre più tristi e più poveri, come taluni economisti pseudocalvinisti vorrebbero imporre a tutti – tra gli altri in Italia – fuorché a se stessi. Dietro la maschera del loro rigore si cela l’orrido volto del loro unico scopo: mantenere – i voti si contano, lo ripeto – i privilegi di cui godono, loro, la loro prole e, esponenzialmente, il numero dei loro famigli. È un sistema mafioso che si differenzia da quello più propriamente detto soltanto per l’uso delle armi: l’ostracizzazione al posto delle pallottole.

    Da un punto di osservazione meno culturale e più strettamente economico, o per ignoranza o per calcolo usano il più gretto monetarismo per combattere il monetarismo spinto. È un metodo che può funzionare come profilassi, come vaccino, ma raramente come cura nei casi di malattie da sala operatoria. Senza una chirurgia radicale quanto impietosa, la mafia è imbattibile. È come un cancro, una volta in metastasi.

    Combattere la crisi dell’Occidente impone anche smascherare questa mentalità mafiosa, di gente che fa denaro non per usufruirne, bensì per accumularlo, come ogni avaro patologico. Vuole dire stroncare un sistema che, negli ultimi decenni, ha premiato i loro complici, ruffiani senza cultura – nella letteratura, nelle università, nei cinema, nell’amministrazione dello Stato, nelle concessioni dei proventi da autostrade, aeroporti, gestioni di risorse naturali ai propri compari.

    Grazie alla complicità di intellettuali amici nei giornali e negli strumenti di comunicazione e intrattenimento, sono riusciti persino a fare passare simili regalie feudali per privatizzazioni o per sostegno alla cultura.

    I loro inganni tengono banco – e banche – grazie a una carenza di adeguata forza al centro e a un eccesso di piazza ai bordi. La piazza è agevolmente gremita di fiacchi. In troppi in Italia vogliono un centro decisionale debole e una piazza forte. Lo rivelano di giorno in giorno e di noioso telegiornale in tedioso telegiornale le sue alchimie di bizantinismi romani e di vuote diatribe – remote dalla gente forte che davvero lavora.

    Quindi?

    Quindi niente. Non sta all’analista junghiano (appassionato di Storia) fornire suggerimenti. Ma spetta forse all’intellettuale libero l’obbligo etico di offrire ai pochi disposti ad ascoltarlo un punto di osservazione non viziato di pedisseque banalità.
    Enrico Francot, analista Junghiano
     
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