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  1. TullioConforti
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    Tratto da:

    http://www.bol.it/libri/scheda/ea978880445824.html


    Riccetto e i bisonti:

    Riccetto fu chiamato al suo primo confronto con il bisonte per caso - lui avrebbe detto per volonta' del Grande Spirito - un pomeriggio di autunno, mentre era lontano dal suo villaggio, in cerca di cerbiatti ed alci.
    L'autunno era la stagione cruciale per la caccia, il momento dell'anno nel quale scovare una mandria di bisonti o non scovarla significava la differenza tra la vita e la morte, nell'inverno imminente, per la tribu'. E nonostante i "bufali" come venivano chiamati nel West, anche in questo caso storpiando una parola francese, "boef", fossero ancora numerosissimi, forse 50 milioni di capi, il territorio entro il quale essi galoppavano era immenso.
    Le grandi mandrie selvagge di questo mostruoso bovino, capace di raggiungere i 1000 chili di peso per i tori piu' grossi e di correre fino a 50 chilometri all'ora quando era spaventato, battevano un'area che si estendeva dal moderno Texas all'attuale Canada, dunque 3000 chilometri, circa la distanza in linea d'aria tra Mosca e l'Atlantico.
    Naturalmente, i Sioux conoscevano da generazioni le loro abitudini, sapevano quali rotte nella prateria i capi mandria, i tori guida, prediligessero, attraverso quali passi transitassero. Ma l'avere intercettato una mandria lo scorso autunno non era una garanzia certa che la si sarebbe ritrovata anche quest'anno. Il compito dell'esploratore era dunque tanto cruciale, se non piu', di quello del cacciatore che sarebbe poi stato chiamato alla mattanza degli animali.
    Al suo amico e tutore, al suo "kola", come si dice in lingua lakota, Schiena Alta, il ragazzo racconto' piu' tardi di non avere ne' scoperto, ne' visto la mandria dei bisonti, ma di averla sognata.
    Era solo, sulla cresta di una collina. La sera stava calando in fretta. Il cielo era gia' percorso dai grandi stormi a V degli aironi, delle cicogne, delle anatre in migrazione e dalle alture si poteva udire distintamente il malinconico muggito delle alci agitati dagli amori autunnali. E Riccetto, che si era addormentato, si sveglio' di soprassalto sentendo il bisogno improvviso di gettarsi a terra e di posare l'orecchio al suolo. Il rombo degli zoccoli dei bisonti era inconfondibile e l'eco del loro galoppo disse al ragazzo, che aveva l'orecchio fino, che quella mandria doveva essere vicina.
    Salto' sopra il suo puledro, si precipito' al villaggio e grido' la buona notizia, ho trovato la mandria, ho trovato la mandria. Fatto un po' sorprendente per noi uomini "moderni" che teniamo bambini e ragazzi in cosi' scarsa stima, i capi, gli anziani, gli akicita, le donne, l'accampamento intero non misero in dubbio la parola di quel ragazzino, e cominciarono subito i preparativi per la partenza e per la caccia.
    Si mossero tutti. Gli indiani non avevano scelta, dovevano trasferirsi in massa, ed il piu' vicino possibile al luogo della caccia, pr macellare, scuoiare, cucinare e seccare il piu' presto possibile i capi abbattuti. Non c'erano ne' camion per trasportare le carcasse, ne' frigoriferi per conservarle.
    Chissa' come si sentiva Riccetto alla vista dell'intero villaggio, della sua gente, probabilmente duemila persone in quel momento, che levava le tende, spegneva i fuochi, caricava di masserizie le tregge, intonava i canti propiziatori e rendeva grazie al Signore, tutto sulla base di quel che lui, un bambino, aveva sentito poggiando l'orecchio sul terreno. Era una responsabilita' immensa, e sarebbe stata una catastrofe se il villaggio si fosse levato, consumando cibo prezioso, sfiancando i cavalli, affaticando vecchi e malati, per una spedizione a vuoto.
    Ma il futuro "Cavallo Pazzo" era un sognatore, un uomo che faceva la spola tra il mondo della realta' ed il mondo dei sogni, che per un Sioux era il mondo di Dio. Aver prima sognato e poi sentito i bisonti era per lui certezza sufficente.
    Quella notte, mentre le donne finivano di assicurare le slitte ai cavalli, i guerrieri affilavano frecce e lance, gli sciamani - i sacerdoti - completavano le cerimonie propiziatorie per una caccia abbondante, il padre di Riccetto, solo nel suo tipi', innalzo' una preghiera speciale a Uakan Tanka, al Grande Mistero.
    Accese la pipa sacra, la piu' lunga, con il fornello di pietra, offri' il fumo del tabacco come incenso, prima al Padre Cielo, poi alla Madre Terra, infine ai quattro punti cardinali e rese grazie allo Spirito per aver regalato a quel suo strano ragazzo, cosi' magro, cosi' piccolo, il potere di sentire il passo del bufalo e di aiutare quindi la sua gente. Doveva essere orgoglioso e commosso quell'uomo, ma anche un poco inquieto. Come diceva Alce Nero, il piu' santo dei sognatori d'Alci e di Bisonti, "Il Grande Mistero chiede molto a coloro ai quali da' molto".
    Il mattino dopo il ritorno di Riccetto con la notizia dei bisonti, il villaggio era in marcia, preceduto come sempre dagli esploratori, partiti ancora con il buoi nella direzione indicata dal ragazzo.
    Era una processione fantastica.
    In testa avanzavano come sempre i capi del villaggio, la "pance grosse", come erano chiamati i capi dagli indiani che vedevano l'adiposita' con il rispetto di chi ha sempre fame. Il piu' anziano reggeva in mano l'urna di pietra che conteneva il fuoco del villaggio, la fiammella alla quale tutti avrebbero poi attinto per accendere i loro fuochi privati sotto le tende.
    Dietro di loro i migliori uomini dell'akicita, la polizia, trottavano fianco a fianco formando una barriera impenetrabile e minacciosa di piumaggi di guerra, di corpi dipinti con i colori sacri, lance piumate, faretre gonfie di frecce, anche per tenere calmi i bollenti spiriti dei piu' giovani, ansiosi di galoppare subito verso l'appuntamento con il bisonte, a rischio di sfinire i cavalli e di spaventare la mandria, sparpagliandola e dunque rendendo piu' arduo il lavoro dei cacciatori.
    Alle spalle dei cacciatori, che marciavano per file di cinque, venivano le donne agghindate con gli abiti migliori, con le fasce gambiere fatte di aculei di porcospino intrecciati, i bambini piu' piccoli sulle spalle, i piu' grandicelli ed i vecchi sdraiati sulle slitte, le code dei loro cavalli guarnite con fili e piume colorate. Attorno a loro, che erano il cuore ed il futuro del popolo, cavalcavano i guerrieri, facendo quadrato.
    E dappertutto ronzavano i ragazzi eccitati sui loro cavallini, impegnati a correre avanti ed indietro, a mimare assalti, a rompere l'anima ai guerrieri ed ai cacciatori con freccette e piccole lance, ma stando bene attenti a non infastidire gli akicita e le pance grosse, perche' c'era un limite alla pur grande indulgenza dei Sioux verso i loro piccoli.

    -continua-

    Edited by TullioConforti - 12/6/2008, 21:12
     
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  2. TullioConforti
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    Riccetto ed i bisonti (2):

    Tre giorni marcio' il villaggio, dormendo all'addiaccio sotto le coperte di pelle, gli uomini spesso legati ai cavalli per evitare razzie di tribu' ostili, che sarebbero state particolarmente gravi durente un trasferimento.
    All'alba del terzo giorno tornarono gli esploratori e portarono la notizia che tutti stavano aspettando: i bisonti erano stati avvistati: Riccetto aveva detto il vero. Sogno o non sogno dovette essere un bel sollievo per lui.
    Oltre la collina, a poche ore di galoppo, una mandria immensa trottava pigramente nella pianura, appesantita dal grasso accumulato durante le scorpacciate estive.
    Le donne lanciarono trilli entusiastici.
    Gli akicita lanciarono occhiate raggelanti ai piu' irruenti che gia' incitavano i cavalli.
    I capi scelsero, come sempre prima della caccia, i venti piu' bravi, piu' rapidi, piu' letali cacciatori, perche' attaccassero per primi la mandria. Il loro bottino sarebbe stato destinato a tutti coloro che non potevano provvedere a se' stessi, ai poveri della tribu', alle vedove, alle donne ripudiate e non rimaritate, ai vecchi, ai wintke, i vestiti da donna, gli omosessuali maschi, costretti a vivere ai margini dell'accampamento e non ammessi alla caccia. Era questo di cacciare non per se' ma per la comunita', il massimo onore che i capi potessero concedere.
    Non soltanto il sogno di Riccetto era stato veritiero. La visione era stata miracolosa, un altro segno chiarissimo-penso' il padre-della speciale predilezione dello Spirito per quel suo ragazzo strano.
    Sotto gli occhi estasiati dei cacciatori, la prateria aveva cambiato colore. Il verde pallidissimo dell'erba autunnale era divenuto un mare color marrone intenso, il colore delle pellicce dei bufali che la coprivano a perdita d'occhio.
    Era da molte estati, sentenziarono i vecchi, da molti anni che non si vedeva una mandria cosi' grande, e ancora non lo potevano sapere, ma cosi' grande non l'avrebbero vista mai piu'.
    Hoka Hey! gridarono i capi, Hoka Hey! fecero eco i guerrieri, all'attacco! E la caccia comincio'.
    Con la cura e la sapienza distillate da generazioni, i cacciatori divisero le loro forze in due gruppi, per aggirare la mandria che trottava annusando nervosa l'aria.
    Gli uomini avevano cura di restare sempre sottovento, per evitare che l'odore dei cavalli e degli uomini mettesse in allarme i tori adulti, che coprivano i fianchi della mandria, esattamente come facevano i guerrieri, per proteggere le femmine ed i piccoli al centro.
    Cacciare il bisonte in quelle condizioni era un'impresa che richiedeva un'abilita' straordinaria ed un coraggio leonino. Armati di sole frecce e lance, i guerrieri cacciatori dovevano avvicinarsi a pochi metri da quei colossi muscolosi lanciati in piena corsa, e colpirli nell'unico punto vulnerabile, sopra la spalla sinistra, per raggiungere il cuore. Inutile mirare alla testa, perche' il bisonte ha un doppio cranio, come il doppio scafo dei sottomarini e delle superpetroliere, e le frecce dei Sioux rimbalzavano innocue su quei testoni corazzati che soltanto i proiettili ad alta velocita' dei cacciatori bianchi molti anni dopo riusciranno a perforare.
    Neppure colpirli ai fianchi era garanzia di successo, perche' se l'angolo d'impatto della freccia non era precisamente perpendicolare, la punta schizzava via sulla loro pelle robusta, come un sasso a pelo d'acqua. Adoperare i pochi fucili ad avancarica che gli indiani cominciavano ad acquisire in quel periodo non avrebbe avuto senso. Da lontano le pallottole non avrebbero raggiunto il bersaglio con forza sufficente. Da vicino quegli archibugi, lenti e complicati da caricare anche nelle migliori condizioni erano impossibili da manovrare sulla sella di un cavallo lanciato ventre a terra, sarebbero stati soltanto un impiccio.
    Lentamente, coraggiosamente i cacciatori dovevano aggirare la mandria secondo il vento, accostarsi ai tori, mettersi al passo con loro, penetrare zigzagando nelle loro file ma evitando di attraversare il percorso di questi animali alti fino a due metri, pesanti una tonnellata e lanciati a cinquanta chilometri all'ora, ed avvicinare il cuore tenero della mandria, le femmine ed i vitelli, per colpirli.
    Non era una corrida, lotta truculenta ma coreografata ed impari fra uomo ed animale. Era una battaglia vera e propria, nella quale molti uomini pagavano con la vita il privilegio di cacciare per la tribu'. Cavalli cadevano e cavalieri finivano sbalzati di sella e spappolati dagli zoccoli dei bisonti. Una mischia furibonda, ed ad alta velocita' si scatenava tra uomini ed animali, mentre l'aria si riempiva di polvere, delle grida lanciate dai guerrieri, dei muggiti strazianti dei vitelli feriti e delle loro madri e delle urla di terrore degli uomini caduti che vedevano la mandria prossima a calpestarli. Molte donne avrebbero intonato il canto della morte, quella sera, come tutte le sere della caccia al bisonte.
    Dopo che i guerrieri scelti avevano ucciso i primi animali per i poveri e le vedove, e gli altri erano riusciti a penetrare le difese esterna del branco, la caccia diventava un affare individuale, ognuno per se' ed il Grande Spirito per tutti. Ciascuno scieglieva il suo bersaglio e cercava di abbatterlo come meglio poteva.
    Riccetto, che era stato ammesso alla sua prima caccia come premio per aver avvistato la mandria, affianco' un vitello che sembrava di un anno, scocco' la sua freccia nella spalla sinistra, come gli era stato insegnato e con un tuffo al cuore vide la bestia inciampare e cadere: il suo primo bisonte colpito. Il suo primo successo.
    Ma il vitello si rimise sulle gambe, riprese a galoppare. Riccetto lancio' un'altra freccia, poi un'altra ancora ed un'altra ancora, otto, come racconto' la sera attorno al fuoco, prima che l'animale, cosparso di frecce colorate, come le banderillas sulla groppa del toro da corrida, finalmente stramazzasse morto.
    Era il momento piu' pericoloso della caccia. Quando una bestia crollava uccisa, il resto del branco scartava bruscamente per evitarla, continuando la corsa nel panico, e minacciava cosi' di travolgere il cavallo dell'uccisore che doveva manovrare la sua monta fra bestioni impazziti, come il guidatore di un'utilitaria che dovesse pilotare la sua auto fra centinaia di autotreni guidati a tutto gas da autisti ubriachi.
    Non era neppure il caso di fermarsi, perche' il resto della mandria sopravveniente al galoppo avrebbe travolto e fatto polpette dell'incauto che fosse smontato per ammirare la preda abbattuta. Bisognava continuare, galoppare, fino a quando ci fossero state frecce nella faretra e fiato nei polmoni del cavallo.
    Riccetto ne aveva sprecate una quantita' proporzionata alla sua inesperienza. Era rimasto a secco e dovette manovrare per districarsi dalla mischia, zigzagando con il suo cavallo tra i bisonti, senza farsi travolgere, come poco alla volta, uno per uno, facevano gli altri cacciatori Oglala, a mano a mano che le loro frecce finivano.
    Alla sera la prateria era cosparsa delle carcasse dei bisonti uccisi e la tribu' era al settimo cielo. Le donne correvano eccitate da una carcassa all'altra, armate degli affilatissimi coltelli da macellaio che avrebbero usato per scuoiarle e squartarle, cercando la bestia abbattuta dal loro uomo e riconoscibile dalle frecce ornate con le piume ed i colori del clan. Ogni guerriero ed ogni cacciatore aveva le proprie insegne dipinte sulle armi, per riconoscere quale bisonte ucciso gli appartenesse e gli akicita, i magistrati poliziotti, dovevano intervenire spesso per sedare liti e dirimere controversie quando frecce di diversi colori, dunque di diversi cacciatori, stavano conficcate in una stessa carcassa.
    Valutavano con occhio esperto i colpi, esaminavano la bestia per vedere quale freccia avesse inferto il colpo mortale e stabilivano a chi spettasse il bisonte, o in quante parti andasse diviso. La loro autorita' era assoluta, il loro giudizio finale, e la punizione per chi non avesse rispettato la sentenza poteva essere terribile. Ma dovevano fare bene attenzione a mantenersi equi ed imparziali. Quando un magistrato degli akicita sbagliava nell'ordinare un castigo, nell'imporre un pignoramento punitivo di beni, veniva condannato a subire il doppio della pena inflitta, qualunque essa fosse. Una maniera brutale ma efficacissima per scoraggiare abusi ed errori giudiziari e mantenere onesti i giudici.
    Mentre i guerrieri riposavano esausti, massaggiandosi l'uno con l'altro i muscoli delle braccia indolenziti dalla fatica di tendere le corde degli archi diecine e diecine di volte, curandosi le ferite con gli unguenti e le polveri a base di muffe antibiotiche preparate dagli sciamani della tribu', i medici del villaggio, ed accudendo ai cavalli piu' esausti e malconci di loro, le donne si gettavano sugli animali abbattuti, aiutate da tutte le femmine della famiglia.
    Non c'era un minuto da perdere, ne' un pezzo da sprecare. Quando la caccia finiva era quasi sempre pomeriggio avanzato e la notte avrebbe portato molti e temibili concorrenti, non meno affamati degli indiani.
    La prateria, ancora in quella meta' del XIX secolo, brulicava di predatori a quattro ed a due zampe, aquile, falchi, orsi, lupi, corvi, avvoltoi e soprattutto coyote, tutti ansiosi di partecipare al banchetto di bisonte imbandito dai cacciatori.
    Le donne erano velocissime ed abilissime, nel loro lavoro. Dalla loro abilita' di macellaie, sarte, cuoche, dipendeva la sopravvivenza di tutto il villaggio almeno quanto dipendeva dal valore dei cacciatori. Senza la loro capacita' di sfruttare fino allo zoccolo quelle carcasse, tutta la fatica degli uomini sarebbe stata sprecata.
    Scuoiavano i bisonti, tagliando e separando le pezze della loro pelle secondo il futuro impiego, le aree piu' morbide per farne coperte, quelle piu' robuste destinate alla concia per farne la copertura delle tende. Per un tipi' normale, una tenda unifamiliare capace di ospitare fino a dieci persone, erano necessarie diciotto pelli. Per un tipi' condominiale, dove potevano vivere o riunirsi molti gruppi di persone per cerimonie o consigli tribali, ne servivano almeno trenta.
    Le parti della carcassa erano tagliate e divise. Per prime le interiora, cuore, polmoni, reni, buone per il brodo, e soprattutto il fegato, considerato il boccone piu' prelibato e consumato sempre crudo. I gruppi di donne chine sulle carcasse, dovevano lavorare circondate da sciami di bambini che le tormentavano con la richiesta di pezzetti di fegato crudo, che loro di tanto in tanto gli gettavano per tenerli buoni. Soltanto per riaverli intorno, un istante dopo, ancora piu' ronzanti e fastidiosi.
    Filetti controfiletti, spalle erano rapidamente affettati in lunghe strisce di carne sottile, che poi venivano stese sopra griglie fatte con bastoncini di legno e sistemate sopra le braci, perche' si affumicassero. Una tecnica che i pionieri bianchi impararono subito ed imitarono. Ancora ogi quelle striscioline di carne affumicata, chiamata beef jerky, sono vendute in ogni supermercato americano.
    Nulla doveva essere sprecato. Le corna grosse e corte, sarebbero state scavate per servire da mestoli, cucchiai ed utensili da cucina.
    Gli zoccoli sarebbero stati bolliti per farne adesivi e colle. Gli scalpi, i ciuffi di pelo denso e ruvido sul cranio, sarebbero divenuti copricapi per la guerra e le cerimonie solenni. Le vesciche seccate e poi riempite di sassolini sarebbero divenuti giocattoli per le bambine, che si divertivano ad agitarle, per accompagnare le loro danze, come le maracas. Lo sterco, seccato e compresso in mattonelle era il combustibile per il fuoco. Il bisonte era l'alfa e l'omega, l'inizio e la fine, il centro della vita dei Sioux, dei cacciatori delle Grandi Pianure. Con il bisonte i Sioux vivevano felici e prosperi. Senza il bisonte sarebbero stati detinati a morire.
    Per questo il "bufalo", per seguire il quale probabilmente le tribu' asiatiche avevano attraversato lo stretto di Bering ed erano arrivate sul continente americano, era molto piu' di una preda ambita. Il bisonte era il dono che il Grande Spirito aveva fatto ai suoi figli, era il messaggero ed il ponte fra la Terra ed il Cielo. Non per nulla la madre di tutto il popolo indiano, la mitica donna dal cui grembo benedetto discendono tutti gli indiani secondo la loro tradizione si chiama "Donna del Bufalo Bianco".
    Dunque prima che il villaggio potesse piantare le sue tende e concedersi una scorpacciata srale di bisonte per chiudere il giorno della grande caccia, i capi e gli sciamani scieglievano l'animale piu' grosso e lo offrivano al Grande Spirito, in segno di riconoscenza per quel cibo e di rammarico per quella morte.
    Nel circolo intorno al fuoco centrale del villaggio, i capi rendevano grazie a Dio e chiedevano perdono a lui, al "fratello bisonte" per averne sparso il sangue, spiegandogli che quel massacro era necessario, ma doloroso e che mai avrebbero ucciso piu' animali di quanti ne fossero serviti al popolo. Dopo la cerimonia la carcassa restava all'aperto per molti giorni, prima di essere bruciata e le ceneri sparse al vento della pianura perche' fossero come i semi portati dagli insetti e dagli uccelli, promessa di rinascita per molti altri bisonti.
    Quella sera di autunno, per la prima volta nella sua vita Riccetto fu invitato alla cerimonia. Era il riconoscimento per il suo ruolo centrale nella scoperta della mandria e poi del valore diimostrato nella caccia. Il ragazzo si stacco' dal gruppo dei suoi amici, lascio' il fianco del suo inseparabile kola, Schiena Alta, per unirsi al cerchio degli adulti e dei capi, tra le urla di gioia e di orgoglio dei compagni e sotto lo sguardo fiero ed umido della madre.
    Dovette essere un momento esaltante, un attimo di ebbrezza insuperabile. Lui, un ragazzo, aveva aiutato il suo popolo, aveva sfamato la sua gente, aveva ricevuto il suo diploma da adulto, di cacciatore, di guerriero, di Oglala, di Sioux.
    Ed in quella notte autunnale, nel buio della prateria scosso dai canti dei guerrieri e dalle risate delle donne, vibrante di grida felici, di fuochi, di deliziosi profumi di carne fresca e di sangue di bisonte, Riccetto immagino' le molte altre cacce alle quali avrebbe d'allora in poi partecipato, come i padri dei suoi padri, da quando la Donna del Bufalo Bianco aveva creato gli indiani.
    Non sapeva che quella sarebbe stata l'ultima grande caccia al bisonte alla quale avrebbe partecipato. Non sapeva che nessun indiano avrebbe mai piu' veduto una mandria cosi' grande galoppare nella prateria. Il tempo della caccia al bisonte era finito. Per Riccetto, per Cavallo Pazzo, stava per cominciare il tempo della caccia all'uomo.

    Edited by TullioConforti - 12/5/2008, 19:02
     
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  3. TullioConforti
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    Tratto da:

    http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/lib...i_gangster_.htm

    SNORKY:

    Per un uomo dell'eta' e dell'importanza di Frank Loesch, questa missione era veramente seccante. Con profondo disgusto, il consulente legale del consiglio comunale, membro fondatore della commissione per il crimine di Chicago, nonche' a settantacinque anni suo presidente, attraverso' l'atrio dal pavimento a scacchi bianchi e neri del Lexington Hotel ed entro' nell'ascensore. Aveva consacrato la propria vita alla distruzione dell'uomo dal quale ora si recava a cercare aiuto e questo aumentava il suo senso di umiliazione. Tra i "nemici pubblici della citta'", un termine che Loesch stesso aveva coniato per dissipare quell'aureola di romanticismo nella quale la stampa scandalistica usava avvolgere i gangsters. Al Capone era in cima alla classifica.
    Eppure chi, se non Capone, in questo autunno del 1928, avrebbe potuto o voluto garantire agli elettori della contea Cook, elezioni libere ed oneste? Non certo il governatore dello Stato, un malversatore, protettore di criminali. Non il grottesco sindaco di Chicago. Non il procuratore di Stato, che non era mai riuscito a perseguire nemmeno un gangster: E meno che mai la polizia, quella polizia che Capone una volta si era vantato di "possedere".
    Loesch ricordo' in seguito: "Dopo la mia nomina a presidente della Commissione per il crimine, non mi ci volle molto per scoprire che Capone comandava la citta'. Le sue mani arrivavano in ogni dipartimento, in ogni amministrazione di contea...Presi delle misure per incontrarmi segretamente con lui nel suo quartier generale". I generosi esborsi di Al Capone, gli consentivano di comportarsi come se fosse il proprietario del Lexington. L'atrio era costantemente pattugliato dai suoi giannizzieri che non appena scorgevano qualche individuo sconosciuto, dall'aria sospetta oppure curiosa, si precipitavano al telefono interno ed avvertivano il loro capo. Altri uomini stavano di guardia ai pianerottoli, e per avvicinarsi all'inaccessibile covo di Capone, al quarto piano, il visitatore doveva passare in mezzo a file di guardie del corpo che portavano sotto le giacche una calibro 45, in una fondina che, secondo la foggia prescritta, era attaccata ad una cinghia che pendeva dalla spalla e scendeva a 10 centimetri sotto l'ascella sinistra.
    Il centro nevralgico delle molteplici attivita' di Capone era la stanza 430, il salone del suo appartamento di sei locali. Da qui egli dirigeva con la guida del suo direttore finanziario di origine moscovita e dall'aspetto porcino, Jake Guzik, detto Greasy Thumb, Pollice unto, un consorzio che possedeva o controllava fabbriche di birra, distillerie, bettole illegali, magazzini, flotte di imbarcazioni ed autocarri, night clubs, bische, piste da corsa per cavalli e cani, case di appuntamento, sindacati, associazioni industriali e commerciali; attivita' che tutte insieme producevano un reddito annuo di centinaia di milioni di dollari. Il denaro veniva ammassato in borse di tela chiuse con il lucchetto e sistemate nella stanza 430, in attesa di trasferimento in qualche banca con nomi fittizi.
    Per imporre la propria volonta', Capone si avvaleva di un esercito di tiratori, di esperti nell'uso di bombe e di fucili mitragliatori, forte di settecento-mille unita', alcuni sotto il suo diretto comando, altri messi a sua disposizione dai capi di bande alleate. La sua immunita' era garantita da un intricato sistema di connessioni con l'amministrazione cittadina, che coinvolgeva tutta una serie di funzionari, dai portieri al sindaco.
    Loesch, dopo aver superato l'ispezione delle sentinelle, fu ammesso in un vestibolo ovale. Sul parquet di legno di quercia, era stato inciso uno stemma araldico con le iniziali A.C. Alla sinistra vi era una stanza da bagno con una vasca immensa, i rubinetti placcati in oro e le piastrelle di ceramica verde Nilo e rosso porpora. Un antico tappeto orientale ricopriva il pavimento del salone e sull'alto del soffitto era scolpito un elaborato disegno floreale. un candelabro di ambra e cristalli affumicati diffondeva una luce soffusa. In un caminetto artificiale ardevano finti tizzoni che mandavano rossi bagliori per via di alcune lampadine elettriche sistemate sotto di essi. Nel rivestimento a pannelli sopra la mensola del caminetto era stato inserito un apparecchio radio.
    Al Capone non era un tipo mattiniero. Era solito restare alzato fin dopo l'alba a mangiare, bere, frequentare night clubs. Chi si recava da lui prima di mezzogiorno, lo trovava in vestaglia e pigiama di seta che, come le lenzuola di seta in cui dormiva, portavano il suo monogramma. Ordinava questi pigiami "modello francese", da Sulka a dodici per volta ed al prezzo di 25 dollari ciascuno. Amava soprattutto quelli blu reale con profili d'oro. Prediligieva anche le mutande colorate di maglia di seta italiana che costavano 12 dollari. I suoi abiti, confezionati su misura da Marshall Field al prezzo di 135 dollari l'uno, con le tasche di destra rinforzate per reggere il peso di una rivoltella, avevano tonalita' di colore pacate, verde pisello, turchino, giallo limone, e Capone si compiaceva di accompagnarli con calze e cravatte intonate, la lobbia e le ghette grigio perla. Sul fermacravatta scintillava un enorme diamante, lungo l'addome adiposo correva una catena da orologio di platino incastonata con diamanti, ed al dito portava un diamante purissimo da 11 carati, bianco azzurro, che gli era costato 50000 dollari. Al tempo della visita di Loesch, Capone aveva ventinove anni, ma sembrava decisamente piu' anziano. Montagne di pastasciutta e fiumi di Chianti avevano depositato strati di adipe, ma il tessuto muscolare sotto il grasso, era forte come la roccia e Capone, in un impeto di collera, sarebbe stato in grado di infliggere terribili punizioni.
    Era alto circa un metro e settantotto centimetri e pesava circa centoquindici chili. Quando si muoveva sembrava che la parte superiore del suo corpo subisse una violenta spinta in avanti, le spalle carnose, incurvate come quelle di un toro. La grossa testa rotonda poggiava su un collo tanto corto e grosso che sembrava partire direttamente dal tronco. Il viso era congestionato come se una quantita' eccessiva di grasso si fosse stipata nello spazio disponibile. Aveva capelli castano scuro, occhi grigio chiaro sotto folte sopracciglia irsute, il naso piatto, la bocca larga e le labbra carnose e porporine. Sulla guancia sinistra, dall'orecchio alla mascella, correva una cicatrice, un'altra gli attraversava la mascella, ed una terza segnava la parte inferiore dell'orecchio sinistro: ricordi di un'antica lotta con il coltello. Era molto suscettibile a proposito di questa deturpazione. Spesso aveva considerato la possibilita' di un intervento di chirurgia plastica. La barba non cresceva attraverso il tessuto della cicatrice e per diminuire il biancore dei solchi, reso ancora piu' bianco per contrasto con il nero delle guance, applicava pesanti strati di talco sulle altre parti del viso. Ai fotografi porgeva sempre il profilo destro. Detestava il soprannome che i giornalisti gli avevano affibbiato - Scarface- ovvero lo sfregiato, e nessuno osava pronunciarlo in sua presenza, a meno che non fosse in cerca di guai.
    Permetteva agli intimi di chiamarlo "Snorky", termine che in gergo significava elegante.
    Loesch trovo' Capone di umore affabile. Sedeva tranquillo e sorridente dietro una lunga scrivania di mogano, con la schiena rivolta alla finestra ed un sigaro tra i denti.
    Sulla scrivania c'era un telefono, un calamaio placcato d'oro, un branco di elefantini di avorio, i suoi portafortuna, un binocolo, con il quale amava scorrere i titoli dei giornali appesi all'edicola all'angolo della strada, ed un fermacarte di bronzo, che riproduceva il monumento a Lincoln. Loesch si stupi' nel vedere appese alla parete di stucco rosa, i ritratti di Abramo Lincoln, di George Washington e del sindaco di Chicago, William Hale Thompson, detto Big Bill, il Grosso Bill. Accanto al ritratto di Lincoln era appesa una riproduzione del Gettysburg Address. Sulla parete opposta vi era un ritratto di Cleopatra, fotografie di Fatty Arbuckle e Theda Bara, le stelle del cinema preferite da Capone, tre teste di cervo imbalsamate ed un orologio con il cucu' che suonava le ore e una quaglia che suonava i quarti.
    Nella stanza si muovevano una mezza dozzina di scudieri, attenti al piu' ppiccolo desiderio del loro capo. Quando il sigaro che aveva in bocca si spegneva, Capone non aveva bisogno ne' di parlare, ne' di accennare un gesto per farselo riaccendere, perche' automaticamente qualcuno balzava al suo fianco e faceva scattare l'accendino. Loesch imposto' subito il suo problema senza preamboli. Ricordo' a Capone le elezioni primarie repubblicane dell'aprile. Nel linguaggio dei gangsters, una bomba era un'ananas ed i giornali avevano soprannominato queste elezioni "le primarie dell'ananas". Terroristi di professione, di entrambe le parti, la maggioranza dei quali erano gangsters di Capone, avevano lanciato bombe nelle case dei candidati, ucciso lavoratori di partito e minacciato gli elettori. La polizia non era intervenuta. Tutto questo era forse un anticipo di quello che sarebbe successo nelle prossime elezioni di novembre? L'arroganza della risposta di Capone sconcerto' il vecchio avvocato. "Vi trattero' con equanimita', se non chiederete troppo".
    "Sentite Capone" disse Loesch, reprimendo la collera, "volete darmi una mano ed impedire ai vostri teppisti ed ai vostri sicari di interferire nei seggi elettorali?".
    "Certo" promise Capone. "con loro posso farlo, basta la mia parola, perche' sono tutti dagos (italiani), ma come la mettiamo con la banda degli irlandesi di Saltis nella zona Ovest? Costoro devono essere trattati in maniera diversa. Volete che mi occupi anche di questo?"
    Loesch rispose che nulla gli avrebbe fatto piu' piacere.
    "D'accordo" fece Capone. "La sera prima delle elezioni mandero' nella zona le macchine della polizia ad arrestare tutti i teppisti ed a tenerli al fresco fino alla chiusura dei seggi".
    E mantenne la parola. Disse alla polizia della seconda citta' d'America quello che avrebbe dovuto fare e la polizia obbedi'. Alla vigilia delle elezioni la polizia fece una retata ed arresto' e disarmo' molti noti gangsters. Il giorno seguente settanta macchine della polizia pattugliarono i seggi. Lo scrutinio si svolse senza disordini.
    "In quarant'anni mai si erano verificate elezioni tanto oneste e meglio riuscite" commento' in seguito Loesch durante una conferenza all'Accademia di criminologia della California del Sud. "Per tutto il giorno non ci fu una sola protesta, una minaccia, od il tentativo di una frode elettorale".
    Era la dimostrazione di un potere che ben pochi fuorilegge erano riusciti a raggiungere prima e dopo di lui.

    Raramente tre ospiti d'onore si erano seduti ad un banchetto tanto munifico. I loro cupi visi siciliani si congestionavano sempre di piu' via via che ingozzavano cibi raffinati e piccanti, annaffiati con litri di vino rosso. A capotavola Capone distribuiva larghi e smaglianti sorrisi trasudando affabilita', e proponeva un brindisi dopo l'altro ai suoi ospiti. Saluto Scalise! Saluto Anselmi! Saluto Giunta!
    Per questa occasione, l'Hawthorne Inn, che a tutti gli effetti pratici era di proprieta' di Capone, come lo era del resto la circostante cittadina di Cicero, era stata chiusa al pubblico, le porte bloccate, le tende tirate. La festa era strettamente intima. L'atmosfera della sala trasudava di esuberanti sentimenti di amicizia, di canzoni, grida barzellette e risate.
    Infine, passata ormai da tempo la mezzanotte, quando l'ultimo boccone era stato divorato e l'ultimo goccio bevuto, Capone di scatto spinse indietro la sedia. Il suo sorriso era svanito. Un silenzio glaciale piombo' nella stanza. Nessuno sorrideva piu', tranne gli ospiti d'onore che, sazi, alticci, avevano slacciato le cinture e crravatte per via della pantagruelica quantita' di cibi e bevande ingerite.
    Ma poiche' il silenzio perdurava, anche loro cessarono di sorridere. Cominciarono a guardarsi attorno nervosamente. Capone si chino' verso di loro. Le parole uscirono dalla sua bocca come pietre. Pensavano forse che lui non sapesse? Immaginavano forse che potesse dimenticare quell'offesa che non aveva mai perdonato a nessuno...il tradimento?
    Capone aveva rispettato l'antica tradizione. Prima l'ospitalita' poi l'esecuzione. I siciliani non avevano possibilita' di difendersi perche', come del resto tutti gli altri commensali, avevano depositato le rivoltelle al guardaroba. Le guardie del corpo di Capone piombarono su di loro, li legarono alle sedie con del filo metallico e li imbavagliarono. Capone si alzo', aveva in mano una mazza da baseball. Lentamente percorse tutta la lunghezza del tavolo e si fermo' alle spalle del primo ospite. Con entrambe le mani sollevo' la mazza e la calo' con tutta la sua forza. Con lentezza metodica continuo' a colpire sulle spalle sulle braccia sul petto. Poi fu la volta del secondo ospite e, quando anche costui fu ridotto a brandelli, passo' al terzo.
    Infine una delle guardie del corpo ando' nel guardaroba a prendere la rivoltella e sparo' alla nuca dei tre siciliani.

    Dal 1929 al 1931 furono pubblicati diversi libri dedicati interamente o parzialmente a Capone. Le edizioni Fawcett, che avevano sede nel Sexton Building di Minneapolis, pubblicarono un numero unico largamente illustrato, con il titolo "The inside Story of Chicago's Master Criminal" al prezzo di 50 cent, e fu la prima pubblicazione di questo genere che in seguito inondo' tutte le edicole. L'autore del libro attribuiva la maggior parte dei delitti elencati nel testo a Capone, anche se in molti casi non c'era alcun nesso. Poi tutto il personale di redazione della Fawcett dovette nascondersi per paura di rappresaglie. Ma evidentemente Capone era piu' lusingato che offeso da tutte queste attenzioni. Compero' cento copie di questa rivista, le vendite totali arrivarono a 750.000 copie.

    Ma pochi intervistatori trovarono Capone piu' affascinante e piu' attraente di Eleanor Patterson, detta "Cissy", direttrice e poi proprietaria dell'Herald di Washington. "Uno di quei prodigiosi italiani" si espresse dopo un paio d'ore passate con lui a Palm Island. "Ho guardato nei suoi occhi. Occhi grigi, freddi come il ghiaccio. Guardare negli occhi di Capone e' come guardare in quelli di una tigre..."

    La signora Patterson rimase impressionata dalle mani di Capone "Enormi, forti abbastanza per afferrare...be' quasi tutto, ma in superfice morbide, liscie, candide".
    Ma cio' che la sconcerto' furono gli occhi "Il bagliore di quelli di una tigre. Per un attimo ho avuto la sensazione di sentirmi male. Ho dovuto combattere l'impulso di balzare in piedi e di fuggire"
    La discreta efficenza di un servitore che in seguito ad un ordine di Capone, aveva offerto delle bibite, fece nascere una punta di invidia nella signora Patterson, "Dio mio!" disse "Potessi io essere servita cosi' a casa".
    Prima di andarsene la signora auguro' a Capone buona fortuna, aggiungendo "Lo penso sinceramente".
    "E' stato detto, ed e' vero," cosi' la signora concluse il suo articolo, "che le donne hanno una strana attrazione per i gangsters. Se non capite perche', consultate il dottor Freud".

    Edited by TullioConforti - 12/6/2008, 21:04
     
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    Tratto da:

    http://www.bol.it/libri/scheda/ea978880440...er=paritlim0001

    L'erede:

    Charles Ferdinand, duca di Berry, rappresentava una garanzia per la continuita' della stirpe regale. Alto, robusto, sanguigno e vitale, era dotato di una virilita' prorompente ed irrefrenabile. Pareva che tutti gli ormoni sessuali di cui i Borboni difettavano, si fossero concentrati nella sua persona. Ma non era un vizioso, non amava perdere tempo in quei giochetti erotici che spesso servono soltanto, quando ci riescono, a risvegliare i sensi addormentati degli amanti debosciati. Era invece un fenomeno della natura, uno stallone vigoroso, instancabile, insaziabile ed eccezionalmente prolifico. Dove colpiva lasciava sempre il segno.
    Il suo attento biografo Andre' Castelot, non esita a definire "legioni" i bastardi da lui disseminati in Francia ed in Europa e da lui affidati, per il mantenimento, all'amministrazione della Casa Reale. Legioni erano anche le sue amanti, quasi sempre di una sola notte, che lui sceglieva indiscriminatamente in ogni categoria sociale, anche se rivelava un debole per gli amori ancillari. Fra le molte donne che la polizia incaricata di sorvegliare il principe, riusci' a schedare si incontrano crestaie, modiste, sartine, cameriere, figlie di guardiacaccia e cosi' via.
    Oltre alle innumerevoli e spesso anonime amanti di passaggio, Charles ne aveva due fisse, cui era particolarmente affezionato. La prima era inglese, si chiamava Amy Brown ed apparteneva alla piccola nobilta' scozzese. Lui l'aveva conosciuta giovanissimo, a Londra durante l'esilio e se ne era perdutamente innamorato. Forse fu la sua prima donna e le rimase, sia pure a modo suo, sempre vicino. Pare anche che l'abbia sposata in segreto, ma nessuno e' riuscito a dimostrarlo. Amy da parte sua non avanzo' mai pretese in questo senso. Di sicuro sappiamo che il principe riconobbe le figlie Carlotta e Luisa, nate dalla loro unione e come tali le fece battezzare nel 1808 e nel 1809. Rientrato a Parigi nel 1814, il principe si era fatto raggiungere dalla sua famiglia segreta e l'aveva sistemata in una accogliente residenza dove lui si recava quasi quotidianamente per fare visita all'amante e per giocare con le bambine alle quali era molto affezionato.
    L'altra amante in servizio permanente effettivo era Virginia Oreille, figlia di un parrucchiere belga. Charles l'aveva vista per la prima volta la sera stessa del suo ingresso a Parigi alla testa dell'esercito vittorioso. Virginia era allora una ballerinetta quindicenne dalla bellezza sconvolgente e, come scrisse un cronista "dal corpo fatto per l'amore". Charles la noto' durante lo spettacolo organizzato in suo onore e non se la lascio' scappare. Diventata la favorita del principe, Virginia si trasferi' nella villa dell'Avenue di Madrid, ai margini del Bois de Boulogne, che l'amante regale le aveva donato, ma non lascio' il palcoscenico. In breve, sia per la sua indiscussa bravura, ma certo anche per l'alta protezione, divento' prima ballerina dell'Opera'.
    La frenetica attivita' amatoria dello stallone borbonico, non influiva minimamente sulle sue prestazioni coniugali. La moglie Maria Carolina tardo' a scoprire i tradimenti del consorte poiche' lui non le dava motivo di dubitare del suo amore e del suo ardore. Ogni notte la loro camera da letto, che i drappeggi di seta e di taffetas, i cuscini sparsi ed i profumi, avevano trasformato in un'alcova orientaleggiante, risuonava dei gemiti e dei sospiri che cadenzavano le loro fatiche amorose.
    A conferma dell'assiduita' dei loro rapporti esistono anche molte divertenti testimonianze. Come quella del Conte Roger de Damas, il quale, avendo chiesto un giorno all'amico duca se la duchessa fosse in cinta, si senti' rispondere "fino a ieri certamente no, ma potrebbe essere accaduto ieri sera o stamattina...". Si racconta ancora che alcuni anni piu' tardi, dopo la morte del duca di Berry per mano di un sicario, la vedova fu informata che una ventina di donne gravide si erano presentate dal prefetto di Nantes, dichiarando di essere state messe in cinta dal duca, durante una sua visita della citta'. Maria Carolina non si scompose: "Quanti giorni il duca e' rimasto a Nantes?" chiese. "Due settimane, Madame" rispose il cortigiano. E lei, dopo un attimo di riflessione: "Allora e' molto probabile che quelle donne siano sincere".

    -continua-

    Edited by TullioConforti - 12/6/2008, 20:59
     
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  5. TullioConforti
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    L'erede (2):

    Il matrimonio con Maria Carolina non aveva modificato per nulla la condotta del duca di Berry, il quale aveva continuato a frequentare le due amanti permanenti ed a cercarne di nuove. Sua moglie, come si e' detto, tardo' a scoprire la sua duplice o molteplice vita, ma quando lo scopri' non ne fece una tragedia. Naturalmente nei primi tempi c'erano stati litigi e scoppi di gelosia, ma in seguito si era rassegnata grazie anche agli affettuosi consigli di zia Maria Amelia alla quale aveva confidato le sue pene.
    "Cosi' fan tutti", l'aveva consolata la zia con bonaria filosofia napoletana. Poi le aveva spiegato che era una cosa normale che i mariti, pur senza cessare di amare la propria moglie, avessero una o piu' amanti. Cio' accadeva a Parigi come a Napoli, alla corte di nonno "Nasone". Nessuna famiglia sfuggiva a quella regola.
    "Allora anche vostro marito?" aveva azzardato Maria Carolina. "Certamente mia cara", era stata la tranquilla risposta di zia Maria Amelia. "Ma io faccio finta di non saperlo".
    Maria Carolina si era dunque rassegnata alla sua sorte che non era poi tanto...crudele. A parte le corna, Charles era un marito affettuoso, galante e molto divertente. Per giunta, non ricoprendo incarichi politici, ma solo di rappresentanza, aveva tutto il tempo da dedicare, con la moglie, ai divertimenti preferiti. Entrambi amavano il ballo, il teatro e la caccia. Spesso uscivano insieme, senza scorta, come semplici borghesi per confondersi con la gente comune che affollava il boulevard.
    A quell'epoca le strade di Parigi erano infestate dai cosiddetti "piquers", giovanotti sfaccendati che, secondo un comunicato della Prefettura di polizia "provavano un sadico piacere a pungere il sedere delle dame con degli spilli sistemati sulla punta del bastone o dell'ombrello". Quel gioco era naturalmente proibito, ma assai diffuso e assai spesso un grido di dolore si levava sopra il brusio della folla. Tuttavia le vittime dei piquers non se ne adontavano troppo. "Essere punzecchiate nel sedere" racconta H:d'Almeras, "era considerato da molte donne un omaggio, sia pure brutale, alla lorovenusita'. Ma non tutte lo ricevevano...". Maria Carolina non era fra queste ultime e accettava divertita la sua dose quotidiana di piqueres.
    Un altro dei divertimenti preferiti della giovane duchessa era andare per negozi a fare quello che oggi si chiama shopping. Frequentava boutique, saloni di bellezza, mostre ed esposizioni. Quando la riconoscevano, i negozianti, si facevano in quattro per accoglierla col rispetto dovuto. D'altra parte, la sua carrozza ferma davanti ad una vetrina, trasformava il locale in un negozio alla moda. "Per noi" dicevano i bottegai "una visita della principessa fa la nostra fortuna, anche se non compra nulla". Ma lei invece comprava di tutto, senza badare al prezzo, tanto che a volte il marito, che l'attendeva in carrozza, le rimproverava l'eccessiva prodigalita'.
    I duchi di Berry amavano andarsene sottobraccio come una coppia qualsiasi, nei quartieri popolari per assistere agli abituali spettacoli da marciapiede: il mangiatore di fuoco, il divoratore di spade, l'acrobata, la donna cannone e cosi' via. Frequentavano anche i circhi, in particolare quello allora celebre di Franconi ed i chiassosi luna-perk. A Carolina piaceva avventurarsi sulle giostre e nei labirinti. Un solo divertimento le era stato proibito dal consorte: quello di salire sulle vorticose "montagne russe", un novita' che aveva incontrato grande successo. Non si sa mai, poteva essere in cinta. Per la stessa ragione i medici le avevano proibito di comentarsi nel valzer, la nuova danza resa popolare dal congresso di Vienna. A Carolina, che tanto amava il ballo, erano consentite soltanto quadriglie e mazurche.
    Le giornate della giovane duchessa trascorrevano dunque felici. Gli impegni gravosi erano molto rari e le uniche incombenze che lei considerava noiosissime erano la quotidiana lezione di francese, che non imparera' mai a scrivere correttamente, ed il pranzo di corte alle Tuliers fissato rigorosamente dalla severa Maria Teresa per le diciassette e quarantacinque. Il resto della giornata era tutto dedicato agli svaghi. Di solito cavalcaa al finaco del marito per raggiungere ls "Bagatelle", la loro alcova di campagna, immersa fra gli alberi del Bois de Boulogne, oppure raggiungevano in carrozza il castello di Rosny per cacciare nella riserva reale. L'antica monella che amava giocare alla guerra nei giardini della Favorita di Palermo, era diventata un'esperta cacciatrice ed amava fare la posta ai cervi ed ai daini accanto a suo marito. La sua tenuta di caccia era naturalmente molto elegante - ormai era in tutto e per tutto la dama piu' elegante di Parigi. Indossava di solito un abito da amazzone in velluto verde, il suo colore preferito. Era foderato di velluto verde anche il calcio della sua carabina in acciaio intersiato d'oro.
    Dopo la partita di caccia o la passeggiata alla Bagatelle, i due sposi rientravano al galoppo a Parigi per essere puntuali al levare delle mense alla tavole di re Luigi XVIII. A Carolina capitava spesso di giungere in ritardo ed in questi casi assumeva un'aria contrita, come una bambina colta in fallo. Ma per quanti sforzi facesse, non riusciva quasi mai ad essere puntuale. Il suo cocchiere racconto' che una volta, mentre correva per le vie di Parigi, per recuperare il solito ritardo, udi' degli strani scossoni provenire dall'interno della vettura. Si chino' a guardare e scorse sua Altezza che, ginocchini sul sedile, spintonava la spalliera come se cercasse in tal modo di aumentare la velocita' della carrozza.
    Ogni volta che arrivava in ritardo, il bonario Luigi XVIII le manifestava il proprio disappunto togliendo l'orologio dal taschino ed osservandolo con finta gravita'.
    In seguito le aveva anche imposto una multa di cinquanta centesimi che pretendeva ogni volta che lei arrivava tardi.

    -continua-
     
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  6. TullioConforti
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    L'erede (3):

    Non erano gli scherzosi rimbrotti del sovrano a preoccupare la principessa ritardataria, bensi' lo sguardo severo della cognata che manifestava la sua indignata riprovazione per quello scarso rispetto dell'etichetta. Altre gelide occhiate di Maria Teresa seguivano i due sposi quando, finito il pranzo, si affrettavano ad uscire per terminare la serata a teatro od a qualche festa in uno dei tanti palazzi del Marais o del Fauburg Saint-Germain. I reali non uscivano quasi mai e non davano ricevimenti se non in occasioni ufficiali. Trascorrevano le loro serate giocando a tombola, salvo il conte d'Artois, suocero di Maria Carolina, che si impegnava in lunghe partite di whist.
    Comunque sia in quei primi anni di matrimonio l'unico cruccio che assillava la giovane duchessa era quello di dare finalmente alla luce il tanto atteso figlio maschio. Come sappiamo ai due sposi non mancava la buona volonta' e ben presto se ne erano visti i frutti, ma sempre seguiti da amare delusioni. Carolina era rimasta in cinta gia' il primo anno di matrimonio e la "Gazzetta del Regno" aveva subito annunciato il prossimo lieto evento. La gravidanza di "Madame" era stata seguita con grandi speranze dalla famiglia reale e con dubbia apprensione dagli Orleans, il ramo cadetto della famiglia, che avrebbe ereditato la corona in caso di assenza di eredi nel ramo diretto, e da tutti coloro che auspicavano la fine della dinastia borbonica.
    Alcuni mesi trascorsero tranquilli: Maria Carolina non disertava i ricevimenti, ma ora evitava di compiere degli inutili sforzi e rinunciava stoicamente a lanciarsi nelle danze.
    Una sera, durante una festa, mentre le altre coppie vorticavano nella sala sulle ali del solito valzer, la giovane duchessa cerco' di consolarsi al buffet, in compagnia dell'unica dama di corte con cui poteva conversare nell'amato dialetto napoletano, sua zia Maria Amelia.
    Quella sera il buffet offriva in abbondanza una primizia appena giunta a Parigi: grandi fette succose di rosse angurie, di cui le due dame napoletane erano entrambe ghiotte. Incoraggiata dalla zia, Carolina ne fece una scorpacciata col risultato che quel frutto, certo poco adatto allo stomaco di una donna incinta, le provoco' una forte indigestione che la condusse poche ore dopo ad un parto prematuro. Nacque infatti una bimba di sei mesi che sopravvisse solo due giorni.
    A corte la delusione fu grande, e non mancarono i commenti al biasimevole comportamento della duchessa d'Orleans, ritenuta responsabile di quanto era accaduto alla nipote. Da parte sua, Maria Carolina verso' qualche lacrima, ma il marito la incoraggio': d'altronde la sua fecondita' era ormai collaudata. Pochi mesi dopo, infatti, la duchessa era di nuovo incinta, ma anche questa volta, malgrado avesse preso tutte le necessarie precauzioni, fu costretta ad un parto prematuro e diede alla luce un maschietto non vitale.
    Ora la situazione comincia davvero a farsi critica: a corte le preoccupazioni aumentano mentre, da parte sua, Luigi Filippo d'Orleans comincia a sperare che questa ripetuta incapacita' di mettere al mondo figli possa garantire l'eventualita' di successione, se non proprio a lui, almeno al primo dei suoi figli. Le speranze di Luigi Filippo, sono pero' frustrate appena un anno dopo, dall'annuncio ufficiale della terza gravidanza di Maria Carolina. Questa volta i medici sono inflessibili e la duchessa viene sottoposta ad una rigorosa disciplina: niente feste, niente balli, niente ghiottonerie, niente passeggiate o pertite di caccia. Il marito la segue con affettuosa premura, per lei trascura tutti gli altri impegni e persino le sue numerose amanti. Poi finalmente la trepida attesa si conclude felicemente: Maria Carolina da' alla luce una bimba perfettamente sana cui sara' imposto il nome di Luisa. Certo a corte avrebbero preferito il maschio tanto desiderato, ma ora cio' che conta e' la prova che Maria Carolina ha la capacita' di procreare. Tutti si consolano ripetendo la frase abituale che in casa Borbone ha sempre salutato la nascita di una bambina: "Dopo la rosa il giglio".
    in attesa del "giglio" i duchi di Berry riprendono la loro vita abituale, fra divertimenti ed impegni di corte. All'inizio del 1820, Maria Carolina, che ormai ha 22 anni, si e' fatta piu' donna, i parti non l'hano appesantita, semmai hanno portato a maturazione quel seno un po' acerbo, che ora espone impudicamente grazie alle ampie scollature che ora vanno di moda. Quando Charles e' assente, lei assolve i suoi impegni sociali, facendosi accompagnare dal conte di Mesnard, un aristocratico cinquantenne elegante e raffinato, che il re ha scelto come gentiluomo d'onore.
    Maria Carolina ora conosce i motivi che inducono suo marito ad assentarsi per qualche ora tutti i giorni, e spesso anche la sera. Conosce tutti i suoi segreti, l'esistenza della sua famiglia inglese in Rue de Clichy, la sua liason con Virginia Oreille e tutte le altre saltuarie distrazioni, ma non e' piu' gelosa ed ha accettato la situazione con mondana disinvoltura. Suo marito le e' grato per questo e quasi come ringraziamento della sua tolleranza la colma di tenerezze. Essi formano insomma una coppia molto affiatata, unita oltre che dall'affetto, anche da segrete complicita'.
    Durante il carnevale di quell'anno gli amici notano che il duca e' piu' premuroso del solito con la sua giovane consorte. La trattiene, la sorregge o la rimprovera affettuosamente quando con foga giovanile si lancia di corsa nei prati, si preoccupa che non prenda freddo e spesso le bisbiglia qualcosa nell'orecchio provocando scoppi d'ilarita', commenti divertiti, sguardi ed occhiate d'intesa. Che sia di nuovo incinta? Si chiedono gli amici. Sarebbe la quarta volta in quattro anni. Ma loro negano e cambiano discorso.

    -continua-
     
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  7. TullioConforti
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    L'erede (4):

    Intanto pero' a turbare i sogni speranzosi dei duchi di Berry, in attesa del nasciuturo, futuro erede al trono di Francia, cominciano a correre strane voci di attentati e congiure.
    Alcune addirittura fantasiose, come quella macchiavellica secondo la quale la setta massonica mirerebbe ad estinguere la dinastia regnante tagliando la testa al "toro", ossia al duca di Berry, l'unico Borbone ancora in grado di procreare. Quel progetto, subito giudicato inattendibile, ha in realta' una sua logica: l'uscita di scena dell'aitante Charles, oltre a privare la dinastia di una probabile continuita', affretterebbe i tempi di successione per il ramo cadetto degli Orleans. Ma nessuno sembra prendere sul serio questa eventualita' ed i duchi di Berry, continuano felicemente la loro dolce vita.
    Il canevale impazza a Parigi e la sera del 12 febbraio, sabato grasso, sono ospiti della contessa de Greffulhe che ha organizzato una festa mascherata in costumi medioevali.
    Il medioevo va molto di moda negli ambienti legittimisti, sia perche' ricorda i tempi d'oro dell'aristocrazia, e sia perche' i romanzi di Walter Scott, che Maria Carolina divora con appassionata partecipazione, hanno rilanciato la moda del bel tempo antico. Per l'occasione la duchessa ha ordinato un costume da regina di velluto rosso, bordato d'ermellino con una cuffia della stessa stoffa, ricamata d'oro, che non nasconde le trecce bionde avvolte attorno al capo e sostiene la corona regale.
    Il marito, anche lui in costume, e' affascinato dalla sua radiosa bellezza.
    "Peccato" le dice "che quando tu sarai regina non potrai vestirti cosi'".
    La festa si prolunga oltre la mezzanotte. All'inizio il duca di Fitz-James, oltre ai soliti cotillons, aveva offerto alle dame degli innocui pugnaletti dorati, invitandole a colpire al cuore il loro cavaliere preferito. Maria Carolina, che lo ha conservato infilato nella cintura, mentre rientrano in carrozza all'Eliseo lo estrae e minaccia scherzosamente il marito puntandogli al petto l'arma di cartone.
    "Indicami il tuo cuore che voglio trafiggerlo"
    "Eccolo", risponde Charles allargando le falde della pelliccia. Lui e' allegro ed un po' alticcio, l'abbraccia, scherza con lei e poi soggiunge:
    "Domani niente danze mia cara. Ti stancherai troppo. Eppoi e' il 13, giorno di malaugurio"
    "Niente affatto" risponde lei. "Io sono napoletana e di cabala mi intendo piu' di te: a Napoli il 13 e' un giorno fausto, e' il 17 che porta scalogna..."
    "Comunque niente danze domani", insiste il duca.
    "Andremo a teatro. All'Opera danno Les noces de Gamache. SEguira' un balletto..."
    "Con Virginia Oreille immagino", commenta incupita Maria Carolina.
    13 febbraio 1820, domenica grassa. Quando i servi di scena in polpe bianche calarono il pesante sipario di velluto blu sul primo atto, i duchi di Berry lasciarono il loro palco per scendere nell'atrio del teatro. Erano con loro il solito Mesnard, gentiluomo d'onore della duchessa, i conti Choiseul e de CLermont-Lodeve e Madame de Bethisy, compagni inseparabili di ogni serata. La prima parte dello spettacolo era stata piuttosto noiosa, soprattutto per Maria Carolina che, appassionata di teatro, aveva gia' visto quello spettacolo alcune settimane prima in un altro teatro. Charles, che aveva notato i suoi sbadigli, se ne era fra se' e se' rallegrato, considerandoli utili per 'attuazione del suo piano. Si proponeva infatti di indurla a rincasare prima della fine dello spettacolo, per godersi da solo un "dopo teatro" piu' eccitante. Non era la prima volta che cio' accadeva e Madame Roullet, la maschera addetta ai palchi reali, aveva gia' preparato il salotto alcova dietro il palco e messo in fresco lo champagne. Piu' tardi, appena calato il sipario, sarebbe stata lei a fare sgattaiolare nell'interno la bella Virginia Oreille, appena uscita di scena. Quegli incontri rapidi ed appassionati, appagavano la lussuria predatoria del duca. A lui piaceva rovesciare l'amante in tutu' sul divano e prenderla ancora accaldata, col corpo vibrante per la danza apena conclusa ed i sensi eccitati dagli applausi.
    Nell'atrio dell'Opera' i duchi scambiarono sorrisi e convenevoli fra inchini e segni di omaggio. Prima di tornare ai loro posti si recarono anche a far visita agli zii, i duchi di Orleans, che occupavano il palco di famiglia in compagnia del figlio primogenito. L'incontro, ostentatamente affettuoso, fu notato dal pubblico e dalla sala si levo' un applauso: il loro abbraccio smentiva le voci ricorrenti sul dissidio fra il ramo principale ed il ramo cadetto della famiglia reale. Charles fu particolarmente affettuoso col primogenito degli Orleans. Si complimento' coi genitori per la sua prestanza fisica e poi rivolto alla moglie soggiunse: "Vedi Carolina: questo giovane principe potrebbe un giorno ereditare la nostra corona"
    La battuta inattesa ammutoli' gli astanti. Poco dopo, mentre raggiungevano il loro palco, Carolina si alzo' in punta di piedi per sussurrare qualcosa nell'orecchio del marito e questi scoppio' in una fragorosa risata.
    Lo spettacolo riprese e si avvio' lento e noioso verso la conclusione. Dopo ci sarebbe stato l'annunciato balletto con la vedette dell'Opera', Virginia Oreille. Approfittando dell'ennesimo sbadiglio della moglie, CHarles le si rivolse affettuoso e carezzevole:
    "Tu sei stanca mia cara. Vai pure se credi, gli amici ti accompagneranno. Io restero' ancora un poco..."
    "No voglio vedere il balletto" rispose Carolina. La giovane duchessa aveva gia' capito la situazione, ma voleva recitare la sua parte, come si conviene ad una moglie ignara.
    A questo punto intervenne il conte di Mesnard per rendere piu' credibile quell'ipocrita pantomima, cui dovevano essere tutti abituati.
    "Anch'io sono molto stanco duchessa"
    "Anche noi" convennero gli altri cortigiani. "Questo Gamache e' proprio oioso"
    "Allora e' una congiura!", ridacchio' Carolina, con una punta di malizia levandosi dalla sua poltrona foderata di velluto d'Utrecht blu.
    "Andiamo dunque" disse avviandosi verso il guardaroba dove Madame Roullet era gia' pronta per aiutarla ad infilarsi la pelliccia. Il gruppo si avvio' per le scale verso l'ingresso laterale riservato ai reali. Soltanto Charles era senza mantello: lui sarebbe tornato nel palco per godersi il balletto ed il "dopo teatro" allestito da Madame Roullet. Scendendo appoggiata al braccio del marito, la duchessa gli rivolse le ultime raccomandazioni:
    "Cerca di non prendere freddo, caro. E di non fare troppo tardi...altrimenti" aggiunse minacciandolo con un dito "Io ti tirero' le orecchie..".
    Maria Carolina non conosceva ancora perfettamente il francese, ma i giochi di parole li sapeva fare.
    Il teatro dell'Opera sorgeva allora in Rue de Richelieu, dietro la Comedie Francaise e poco lontano dal Palais Royal, residenza dei duchi d'Orleans, ma l'ingresso riservato ai principi si affacciava in una viuzza laterale, Rue Rameau, era protetto da una pensilina e sorvegliato da due sentinelle. Quando il gruppetto apparve sull'uscio, i soldati presentarono le armi ed i valletti approntarono la carrozza aprendo lo sportello ed abbassando il montatoio. Faceva freddo e nevischiava. Avvolta nella pelliccia e stretta contro il corpo del marito, Maria Carolina fu la prima a salire. Madame de Bethisy la segui' subito dopo e Charles da terra, aggiusto' la coperta di pelliccia sulle loro ginocchia. In quel momento, mentre un valletto sollevava il montatoio, ed il duca rivolgeva alla moglie un ultimo saluto, un'ombra apparve nel buio e si getto' contro di lui.
    Fu questione di un attimo.
    "Villanzone, come ti permetti!" grido' Charles, mentre un soldato cercava di trattenere lo sconosciuto, che si era allontanato di corsa. Poi il duca grido' ancora:
    "Mi hanno ucciso! Mi hanno ucciso!Quell'uomo mi ha pugnalato!"
    Nessuno capi' subito che cosa stava accadendo. Il conte de Mesnard, al quale Berry si era appoggiato, continuava a chiedere "Che succede Monsignore? Che succede?"
    mentre l'altro, da solo era impegnato a strapparsi dal petto un punteruolo lungo e sottile che gli aveva raggiunto il cuore.
    Poi tutto fu chiaro. Maria Carolina urlando salto' giu' dalla carrozza scavalcando il montatoio sollevato, cortigiani e valletti si affrollarono intorno al ferito.
    "Mi hanno ucciso!" grido' ancora il duca di Berry, poi si rivolse alla moglie "Vieni Carolina, fammi morire tra le tue braccia". La sua mano continuava a stringere il manico del pugnale insanguinato.
    Seguono alcuni minuti di pandemonio. A rendere la scena ancora piu' confusa contribuiscono alcuni gruppi mascherati reduci da un veglione. Ora attorno al duca ferito ed alla duchessa piangente si agitano clown, moschettieri, damine imparruccate, pierrot ed arlecchini: la tragedia scade nel grottesco. L'unica dei presenti a non aver perduto del tutto la testa e' Madame Roullet, che dispone il trasporto del duca nel salotto-alcova che lei aveva preparato per ben altra bisogna. Adagiato il duca sul divano, sempre assistito dalla moglie, che ha l'abito intriso di sangue, questi riceve le prime cure da un giovane medico inesperto, al quale pero' subito si aggiunge il piu' affidabile professor Dubois che Madame Roullet ha mandato a chiamare in una casa vicina.
    Dubois "esplora" la ferita infilando le dita e, fra gli urli di dolore del duca, ordina di eseguire un immediato salasso, come se di sangue il malcapitato non ne avesse gia' perduto abbastanza, ma quella e' la prassi.
    I duchi d'Orleans accorrono pochi minuti dopo. Vedono Maria Carolina in ginocchio che sorregge una bacinella colma del sangue del marito. Zia Maria Amelia le si fa subito vicina cercando di assisterla e per quanto possibile consolarla. Luigi Filippo, resta immobile in un angolo.
    Forse pensa alle parole profetiche pronunciate poco prima da Charles: ora e' lui e non suo figlio ad essere piu' vicino alla corona di Francia. Era forse anche al corrente dell'attentato? Chissa'.

    -continua-

    Edited by TullioConforti - 31/5/2008, 19:04
     
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  8. TullioConforti
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    L'erede (5):

    "Voglio un prete", supplica Berry. "Non fatemi morire nel peccato". L'incallito peccatore godereccio non pensa che alla salvezza della propria anima. Ora e' arrivato anche suo fratello Luigi, duca d'Angouleme, che si e' inginocchiato davanti a lui sgranando il rosario, mentre sua moglie Maria Teresa, resta rigida al centro della stanza.
    Preceduto da alcuni chierici, giunge alfine il prete, tanto invocato; si tratta di monsignor LAtil, vescovo di Chartres, un prelato verso il quale Berry non ha mai provato simpatia.
    "Dio mi manda una prova in piu' da superare", bisbiglia il morente al fratello. "Proprio a lui dovro' confessare i miei peccati".
    La confessione e' interrotta dall'arrivo del conte d'Artois. E' stato avvertito di quanto accaduto al figlio mentre stava per coricarsi. Rivestitosi alla meglio e' sceso nel giardino delle Tulieres e poiche' la sua carrozza non era ancora pronta e' balzato su quella del suo amico conte de Polignac, mentre il suo primo gentiluomo, conte de Maille', per non separarsi dal suo signore, ha compiuto uno strappo alle regole dell'etichetta ed e' balzato sul sedile posteriore del veicolo, come un qualsiasi staffiere.
    Quel gesto "eroico" per un aristocratico, gli fruttera' un'onorificenza.
    Alla vista del genitore, Berry torna a supplicare la grazia per il suo assassino. "Fatelo graziare dal re vostro fratello", supplica Berry rantolando. Poi, quasi per rafforzare la sua richiesta aggiunge con tono grave:
    "Ve lo chiedo in nome del figlio che Carolina porta in grembo".
    Le parole del ferito risuonarono come un prodigio. Tutti si zittiscono e gli occhi corrono alla snella figura di Carolina che stringe la mano del morente. Per un attimo Berry non e' piu' al centro dell'interesse generale. Le sue parole hanno acceso nuove speranze. FOrse la dinastia e' salva. La duchessa si asciuga il volto rigato di lacrime e di belletto, i suoi occhi lanciano un lampo di sfida. Una sfida a chi immaginava, uccidendole il marito, di estinguere la dinastia.
    "Si" dice poi portando una mano al grembo. "E questa volta sara' Enrico!".
    In cuor suo ha gia' deciso di imporre al figlio il nome del capostipite della gloriosa dinastia borbonica.
    La sua conferma sblocca l'uditorio. Il mormorio riprende e sale d'intensita'.
    "E' un miracolo! E' un miracolo!" ripetono in molti.
    Qualcuno prega, altri si fanno il segno della croce. Si levano in quella tragica atmosfera dei timidi sospiri di sollievo. Anche Luigi Filippo e Maria Amelia sembrano accogliere con gioia il sorprendente annuncio.
    "Il vescovo..dov'e' il vescovo?" le parole di Berry riconducono tutti alla realta'. Il morente vuole continuare la sua confessione. Pare abbia qualcosa di importante da rivelare al prelato, ma poi cambia idea e chiama sua moglie.
    "E' a te che devo dirlo, mia cara. A te che sei la mia sposa...Io prima di conoscerti, ho avuto due bambine. Consentimi di vederle l'ultima volta".
    Carolina non si scompone per quella rivelazione: era gia' al corrente di tutto. Peraltro l'annuncio ufficiale della sua maternita' l'ha resa piu' forte e piu' padrona della situazione.
    "Andate subito a prenderle e conducetele qui" ordina ai suoi cortigiani. Poi rivolta al marito: "DA oggi ho due figlie in piu', avro' cura di loro come della nostra Luisa".
    Mentre una carrozza parte al trotto per Rue de Clichy, dove abita Amy Brown con le due bambine.
    La carrozza con a bordo la "famiglia inglese" del duca di Berry si ferma nel grigiore dell'alba davanti all'ingresso di Rue Rameau. Amy piange compostamente, rassegnata a rimanere nell'ombra anche in quella occasione.
    "Attendero' qui", dice al duca di Coigny che l'accompagna. "Conducete voi le bambine dal loro genitore".
    Luisa e Carlotta di dodici ed undici anni, sono condotte per mano nell'interno del teatro. Maria Carolina si fa loro incontro, le prende in consegna e le conduce al capezzale del marito tenendole per mano:
    "Venite a ricevere la benedizione di vostro padre"
    Le bambine si inginocchiano intimidite davanti all'uomo che e' stato per loro un genitore affettuoso. Berry allunga la mano, poi dice a loro in inglese: "Honor your mother and follow always the path of virtue", onorate vostra madre e seguite sempre il sentiero della virtu'.
    La scena e' molto toccante, Carolina che nel frattempo e' stata raggiunta dalla figlia Luisa di tre anni, stringe al petto la piccola e piange.
    "ora venite a baciare la vostra sorellina", dice alle due bimbe appena queste si sono rialzate, poi si rivolge al marito:
    "Vedi caro, io ho ora tre figlie"
    Ironia del caso: sulla parete contro la quale e' appoggiato il divano del ferito e' affisso un grande manifesto colorato che annuncia la rappresentazione de "Il matrimonio segreto di Cimarosa", in programma al Theatre Royal Italien.
    Il re giunge per ultimo quando ormai albeggia. Lui avrebbe voluto recarsi immediatamente dal nipote morente, ma per vestirlo i suoi domestici hanno impiegato oltre un'ora. Grasso fino all'obesita', immobilizzato dalla gotta e dall'artrite, il vecchio sovrano si lascia docilmente sballottare dalla carrozzella alla carrozza e poi su una portantina improvvisata da alcuni cortigiani che ora lo spingono di peso su per le scale del teatro. Quando il sovrano entra nella stanza Berry e' ancora vivo.
    "Sire vi ho atteso per chiedervi la grazia per il mio assassino. Concedetemela, vi prego"
    "Parliamo di voi figlio mio..." ansima il re, insaccato alla meglio nella sua uniforme con le gambe gonfie strette nei ghettoni di tela. E' chiaro che non intende promettere nulla. "Per il resto vedremo, devo riflettere, ascoltare il parere dei giudici"
    Berry tace e sembra assopirsi. Il re fa un cenno al chirurgo Dubois e gli si rivolge in latino, che conosce quasi come il francese e che considera la lingua ufficiale delle persone colte:
    "Superstne spes aliqua salutis?", ci sono speranze di salvezza?
    L'anziano chirurgo non capisce. Il latino e' per lui una lingua morta e dimenticata, ma il medico piu' giovane e piu' fresco di studi risponde in sua vece scuotendo il capo sconsolato.
    "Che si compia la volonta' di Dio" mormora il sovrano mentre Carolina scoppia nuovamente in singhiozzi.
    La morte sopraggiunge alle sei del mattino. Il chirurgo chiede uno specchio, Luigi XVIII offre la sua lucente tabacchiera che il medico avvicina alle labbra del duca. Il metallo non si appanna.
    "Tutto e' consumato?" domanda il re.
    "Si, Maesta'"
    "Allora mi resta un ultimo dovere da compiere", e, contravvenendo alle regole dell'etichetta, il sovrano si avvicina al cadavere e gli abbassa le palpebre. L'ultimo dei Borboni, l'ultimo ancora capace di procreare e' morto.
    Solo un miracolo potra' salvare la dinastia.

    Edited by TullioConforti - 31/5/2008, 16:29
     
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    Nome e cognome – da ”Italia Provvisoria” di Giovanni Guareschi

    La guerra passò e ripassò nei paesi e nelle città seminando odio e mine. E così alla fine nacquero il mestiere dell’agitatore politico e dello sminatore, tutt’e due pericolosi perché l’odio politico e le mine son roba che scoppia all’improvviso e si allunga la lista dei morti.
    Arrivarono gli sminatori anche in quel borgo di pianura e cominciarono a lavorare forte, ma quando ormai avevano bonificato tutto meno un campicello vicino alla strada provinciale, dovettero sospendere perché c’era urgenza di liberare un posto più lontano. Poco male perché avevamo messo i paletti con filo spinato e cartelli tutt’intorno al terreno minato e si trattava di una piccola estensione di poca importanza.
    Passò del tempo e un giorno il padrone del campo andò a falciare l’erba. Arrivato vicino ai paletti si fermò ad asciugarsi il sudore ma rimase senza fiato. Un ragazzetto di cinque o sei anni era seduto tranquillamente ai piedi di un albero in mezzo al terreno minato e stava giocando con dei sassetti.
    L’uomo non gridò temendo di spaventare il ragazzo. Battè la pietra per affilare il ferro della falce e il bambino levò gli occhi e lo guardò tranquillo.
    “Sta fermo e non ti muovere” disse il contadino. “fermo così come sei. Ci sono le bombe sepolte, se ti muovi scoppiano e muori”.
    La guerra era passata in cielo, in terra, sopra l’acqua: aveva sgretolato i muri dei palazzoni delle città e delle solitarie chiese di campagna. Non aveva rispettato niente, e anche nel più dimenticato villaggio di montagna ecco che era improvvisamente arrivata, camminando per sentieri da capra e aveva ammazzato la gente e bruciato le case.
    Dopo una guerra così anche i bambini di cinque o sei anni sanno che cosa è la morte. Pure se non hanno mai visto morire un uomo, perché uomini sono stati uccisi a pochi chilometri da casa loro, e l’aria tutt’attorno è avvelenata dall’odio dei rimasti. In quest’aria avvelenata la gente invecchia più rapidamente e i ragazzi non hanno più fanciullezza.
    Così il ragazzetto, quando sentì dire che se si muoveva sarebbero scoppiate le bombe che fanno morire, diventò pallido e rimase immobile come un sasso e stava attento a respirare adagio.
    Il contadino chiamò gente e ben presto, tutt’attorno al campo minato c’era la folla.
    Vennero il medico e il parroco poi si vide nella strada una macchina e tutti dissero sollevati: Il sindaco!
    Il sindaco accostò la macchina al fosso, bloccò, saltò giù e fece di corsa i cento metri dalla strada al campo.
    Era uno come tutti gli altri: sei mesi prima nessuno gli avrebbe dato retta perché sei mesi prima era semplicemente un capomastro qualsiasi. Ma adesso era il sindaco e quando arriva il sindaco sul luogo di una disgrazia tutti respirano di sollievo e dicono: “meno male è arrivato il sindaco”.
    “Di chi è quel ragazzo?” domandò.
    Era uno della frazione vicina arrivato lì attraverso i campi. Era sempre immobile come un sasso, in mezzo al campo minato. Ancora più pallido e respirava a fatica.
    “Mamma” disse senza quasi muovere le labbra. E lo sentì soltanto lui tanto lo aveva detto piano.
    Il sindaco scosse il capo.
    “Bisogna telefonare in città, che mandino qualche specialista con gli apparecchi segnalatori. Così è un rischiare la pelle senza risolvere niente, perché se la bomba scoppia mentre uno va a prendere il bambino crepano tutt’e due. E se non crepano nell’andata crepano nel ritorno”
    “Non arriveranno prima di domattina” rispose il medico. “Non è possibile lasciare il ragazzo lì tutta la notte. Una mina puo’ essere a due spanne da lui e se il ragazzo cede al sonno e si corica, la tocca ed è finita”.
    Cominciarono a studiare come avrebbero potuto fare per cavare il ragazzo da quell’inferno.


    CONTINUA ...
     
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    Nome e cognome (2)

    Passò sulla strada un carabiniere in bicicletta. Vide la macchina ferma vicino al fosso e andò a dare un’occhiata alla targa. Poi si guardò attorno, vide il gruppo di gente e si appressò conducendo la bicicletta a mano.
    Era un carabiniere del comune, ma arrivato da poco, e si vide che non conosceva ancora nessuno.
    “Di chi è quella macchina?” domandò, arrivato al gruppo.
    “E’ mia”, disse il sindaco.
    Il carabiniere appoggiò la bicicletta a un gelso, trasse dal taschino un libretto e un mozzicone di matita.
    “Nome, cognome, paternità” disse al sindaco.
    “Perché”
    “Targa irregolare” spiegò il carabiniere.
    “Ma faccia il piacere!” urlò, “E’ proprio il momento questo di pensare alle targhe! Non vede cosa sta succedendo?”.
    La gente cominciò a brontolare.
    “Va all’inferno te e quel porco che ti paga!” gridò una donna.
    Si era ancora nel 1945 quando, soltanto a mostrarsi vestiti da carabiniere, era già un eroismo.
    Il carabiniere era un uomo dai movimenti misurati e lenti e di pochissime parole.
    Volse adagio la testa verso la donna e poi tornò a guardare il sindaco.
    “Non vede?” gridò il sindaco indicandogli il campo minato.
    Il carabiniere lesse ad alta voce uno dei cartelli “Pericolo Mine”. Poi guardò il ragazzo immobile sotto la pianta al centro del campicello. E tornò a guardare il sindaco che gli spiegò con voce irata la situazione.
    “Ho capito”, disse il carabiniere. “Dica al ragazzo di appoggiarsi bene con la schiena al tronco e di non muoversi. Gli altri, sgomberare”.
    Si avviò lungo il recinto di filo spinato e arrivò dalla parte opposta: il tronco copriva perfettamente la schiena del bambino. La terra, all’interno del recinto, era nuda e pelata e il carabiniere chiese un sacchetto di polvere della strada. Una donna diede il fazzoletto che aveva in testa e la polvere fu raccolta.
    Avuta la polvere, il carabiniere si insinuò tra i fili spinati.
    “Dia a me il moschetto” gli gridò il sindaco.
    Il carabiniere scosse energicamente la testa, disimpigliò il moschetto dal filo spinato e passò.
    Tutti si ritrassero ancora: magari si trattava di quelle maledette mine che schizzano in su e poi scoppiano a un metro d’altezza da terra e bisognava stare attenti.

    CONTINUA ...


    Nome e cognome (3)

    Il ragazzo non correva pericolo perché aveva alle spalle il tronco della pianta, ma gli altri dovevano stare in guardia.
    Il carabiniere si chinò seminò un po’ di polvere davanti a sé, poi fece un passo.
    Poi si chinò a seminare polvere e fece ancora un altro passo, e così via, in modo che l’orma del piede rimaneva segnata sulla polvere e se la faccenda riusciva all’andata, il ritorno era assicurato.
    La gente lo seguiva con occhi sbarrati e si mordeva le mani.
    Non accadde niente: arrivò alla pianta, agguantò dal di dietro il ragazzino per la collottola e lo sollevò mettendoselo in groppa.
    Poi ricalcò in senso inverso le sue orme, e ora la gente aveva il fiato mozzo.
    Il carabiniere arrivò al recinto, passò di là il ragazzo, poi traversò lui.
    E allora scoppiò un urlo: la gente corse e le donne singhiozzavano.
    “Lei è un eroe!” gridò il sindaco mentre la gente si accalcava tutt’intorno.
    Il carabiniere era un uomo di movimenti lenti e di parola difficile, e non si turbò.
    Trasse di tasca il libretto e il lapis.
    “Targa irregolare”, disse al sindaco. “nome cognome paternità”
    Il sindaco guardò il cielo, scosse la testa e si mise le mani sui fianchi: Mario Ferretti fu Luigi, nato a Boschetto il 3/5/1901.
    Il carabiniere scrisse lentamente, informandosi se Ferretti portava uno o due erre.
    “Professione?” domandò. “Sin-da-co” disse ironico il sindaco mentre la gente rideva.
    “Sindaco non è una professione è una carica” osservò il carabiniere, “che mestiere fa lei quando non è sindaco?”. “Capomastro” spiegò a denti stretti il sindaco.
    Poi dovette dargli i documenti, la patente e il libretto. E il carabiniere prese nota lento, pignolo, irritante.
    “Sta bene, grazie signor sindaco”, disse toccandosi la visiera del berretto.
    Poi si volse verso la donna che gli aveva gridato “Va all’inferno te e quel porco che ti paga”. E le chiese nome, cognome, paternità, luogo di nascita e professione.
    La donna si mise i pugni sui fianchi.
    “Ma lei” esclamò “deve capire lo stato d’animo di una donna che vedendo un bambino in quel tremendo pericolo, pensa con angoscia a suo figlio e sente uno che, invece di interessarsi del bambino, si occupa di multe! Noi donne del popolo non abbiamo mica un sasso al posto del cuore!”
    Il carabiniere pensò alla faccenda qualche minuto poi rimise in tasca il libretto e il lapis.
    “Data la situazione particolare” disse lentamente “sorvoliamo”.
    Poi ritirò fuori libretto e lapis.
    “Sorvoliamo sull’offesa personale”, disse “Però resta l’ingiuria al governo. Nome, cognome, paternità, luogo di nascita”.
    Ebbe i dati, riprese la bicicletta e si allontanò.
    E la gente lo guardò con occhi nemici.
    Sulla strada però il ragazzino lo aspettava. Immobile e muto stette a vedere il carabiniere inforcare la bicicletta e gli sorrise appena appena.
    Ma bastava, perché i carabinieri si accontentano di poco. E così sorrise anche il carabiniere.


    FINE
     
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  11. TullioConforti
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    Tratto da:

    http://www.bol.it/libri/scheda/ea978882383181.html


    Non dimenticare il passaporto:

    Era la solita giornata di intenso traffico all'aereoporto di Stansted e migliaia di viaggiatori avanzavano in fila verso i banchi del check-in, curiosavano nei negozi, scrutavano i monitor alla ricerca di informazioni sui voli. Ma quelli in destinazione per Cork con Ryanair erano annoiati ed inquieti. Il loro volo era in ritardo e col passare prima dei minuti, poi delle ore il risentimento aumentava.
    Particolarmente agitato era un signore irlandese. Improvvisamente con la coda dell'occhio scorse un volto a lui noto dalla televisione e dai giornali.
    Era Michael O'Leary, il capo di Ryanair, che, vestito casual, come sempre col colletto della camicia sbottonato, annunciava orgogliosamente ad una telecamera televisiva che la sua compagnia aerea aveva l'intenzione di diventare la piu' grande d'Europa. L'aspirante passeggero, un tipo tarchiato, capi' che era il momento di agire e, raggiunto a grandi passi il capo supremo della compagnia, lo fisso' dritto negli occhi.
    Mark DAvinson, l'addetto stampa di Stansted, vide l'intera scena come al rallentatore e, atterrito dall'idea che O'Leary si prendesse un cazzotto in diretta televisiva, si preparo' a chiamare il servizio d'ordine.
    Quando l'intervista termino', il passeggero visibilmente infuriato si avvicino' minacciosamente ad O'Leary. Il padrone della compagnia alzo' lo sguardo e gli chiese: "Che cosa posso fare per lei?". L'uomo sfogo' il suo malumore a lungo ed ad alta voce, dicendo che Ryanair non stava dando informazioni su quando sarebbero potuti finalmente giungere a destinazione. Era livido di rabbia perche' Ryanair stava rovinando il fine settimana, accorciando il tempo che sperava di trascorrere con la sua famiglia.

    ------

    O'Leary ascolto' in silenzio e gli domando' con calma: "Ogni quanto li va a trovare?".
    "Mah, qualche volta l'anno". Rispose l'uomo.
    "Quante volte andava a trovare la famiglia prima che ci fosse Ryanair?". Domando' O'Leary.
    Dopo una breve pausa, l'uomo disse che prima tornava in Irlanda soltanto una volta all'anno, forse anche meno.
    Allora O'Leary alzo' gli occhi al cielo, scosse la testa ed esclamo': "Con tutto quello che ho fatto per lei, viene qui a lamentarsi di un ritardo?". Calo' il silenzio, poi l'addetto stampa vide, incredulo, i due irlandesi cominciare lentamente a sorridersi ed a stringersi la mano. Nel giro di pochi secondi il passeggero arrabbiato cambio' umore e chiamo' gli amici perche' venissero a fare conoscenza col quarantatreenne di Mulligan che aveva rivoluzionato il trasporto aereo.
    Per prima, Ryanair ha introdotto i viaggi aerei a basso costo in Europa. E' la compagnia che ti vende un biglietto aereo per Parigi, Bruxelles, Roma, Francoforte o Stoccolma per un solo centesimo, anche se poi ti porta a Beauvais, Charleroi, Ciampino, Hahn o SKavsta, cioe' ad una o due ore di distanza dalla destinazione effettiva. Per il 2007, O'Leary prevedeva di trasportare 42 milioni di persone sulle sue oltre 300 rotte della compagnia che mettono in collegamento 25 paesi europei. Entro la fine del decennio Ryanair prevede di trasportare oltre 70 milioni di passeggeri, meta' dei quali non pagheranno alcun biglietto, ma soltanto le tasse aereoportuali. Per raggiungere questo risultato, intende tagliare su ogni costo, riducendo al minimo le comodita' offerte a bordo degli aerei.

    ---------


    Eliminando gli scuri dei finestrini, i sedili reclinabili, le fodere rimovibili dei poggiatesta e perfino le tasche dei sedili, quelle dove di solito i passeggeri trovano il depliant con le norme di sicurezza e le riviste gratuite. I sacchetti per il vomito saranno distribuiti soltanto su richiesta. O'Leary ha anche suggerito ai passeggeri di portare solo bagaglio a mano per poter rispermiare sulle spese di movimentazione delle valige. Ryanair e' stata la prima compagnia aerea a tassare pesantemente il bagaglio che supera i limiti stabiliti, come fanno ormai sempre piu' le linee aeree. A bordo l'equipaggio di Ryanair cerchera' di vendervi una gamma sempre piu' ampia di prodotti. Le bottiglie di minerale "blue rock" (acqua del rubinetto con l'aggiunta di gas) sono in vendita ad 1,85 euro. Su alcune rotte i passeggeri possono tentare la sorte con un gratta e vinci da due euro, nella speranza di vincere premi come un'automobile o buoni sconto su altri viaggi aerei. Per un breve periodo la compagnia dava anche la possibilita' di noleggiare un video per ingannare il tempo del viaggio, ma il servizio venne sospeso a causa dello scarso interesse dei passeggeri per questo ulteriore balzello.

    Ryanair e' diventata uno dei brand piu' conosciuti al mondo. Una ricerca condotta da Google, ha scoperto che Ryanair e' uno dei cinque brand piu' internazionalmente noti, insieme a Sony e Ferrari. Le code dei suoi aerei bianchi e blu recano il logo giallo dell'angelo-polena con l'arpa. Quando O'Leary ha ordinato che venissero gonfiati i seni delle polene ritratte sulle code dei nuovi aerei, un portavoce ha spiegato che si voleva offrire ai clienti un'esperienza piu' eterea.

    La rivoluzione del low-cost ha reso i biglietti aerei meno cari dei viaggi in pullman ed in treno, dando a milioni di persone l'opportunita' di andare a trovare regolarmente amici e parenti in tutta Europa.
    "Doing a Ryanair" e' diventata un'espressione di uso quotidiano per indicare l'acquisto via internet di un biglietto economico per una destinazione fuori mano. Talvolta e' difficile fare un affare, per quanto ne dica O'Leary, secondo il quale se non sei capace di trovare un'offerta a buon mercato su Ryanair "sei un fesso!".

    -----------

    Le tariffe migliori sono per chi viaggi atra il martedi' ed il giovedi' ed e' flessibile sulle date di partenza. Acquistare un biglietto Ryanair all'ultimo minuto o per assistere ad un grande appuntamento sportivo, puo' essere costoso. I tifosi in partenza per Siviglia per sostenere il Celtic nella finale della coppa Uefa del 2003 furono scandalizzati dal prezzo di 601 sterline chiesto da Ryanair per un biglietto su un volo speciale per la partita da Stansted. In Inghilterra ed in Irlanda, le autorita' di vigilanza della pubblicita' hanno censurato le promozioni ingannevoli della compagnia. Nel 2003 l'autorita' irlandese ha accolto un reclamo contro una pubblicita' di Ryanair intitolata "OFFERTE PASQUALI", che offriva voli per diverse citta' britanniche dalla fine di aprile fino al 14 giugno. Una nota a pie' pagina spiegava: "Sono esclusi i voli pasquali".

    "Doing a Ryanair" e' un'espressione utilizzata anche per descrivere un'esperienza stressante e difficile, che, nel peggiore dei casi, fa giurare alla gente di non ripeterla mai piu'. Durante il viaggio sono in molti a tenere le dita incrociate, pregando che tutto fili liscio, perche', se le cose vanno per il verso storto, volare con Ryanair puo' diventare un incubo. Se il volo viene ritardato o cancellato, i passeggeri rischiano di ritrovarsi abbandonati in aereoporti sperduti, dai quali solitamente partono solo voli Ryanair. Il volo successivo potrebbe essere programmato per il giorno seguente, e talvolta capita anche di dover aspettare un paio di giorni o persino una settimana per ripartire. In quell'intervallo di tempo si e' abbandonati a se' stessi;
    Il personale di Ryanair non vi offrira' ne' una tazza di te', ne' un letto per la notte. Tabitha Dmochowska ha raccontato al "Guardian" di avere pagato 718 sterline per riuscire a tornare in Gran Bretagna con il marito e tre figli dopo che Ryanair li aveva lasciati a piedi all'aereoporto di Vasteras a cento chilometri da Stoccolma. Altre cento persone vennero abbandonate al loro destino, quando la compagnia cancello' il volo.
    Ryanair e' diventata celebre anche per le sovrattasse imposte a chi ha bisogno di una sedia a rotelle. Quando Bob Ross, affetto da paralisi, arrivo' al check-in per il volo da Stansted a Perpignan, gli venne detto che avrebbe dovuto pagare 18 sterline per l'uso della sedia a rotelle. Si rivolse ad un tribunale che, nel gennaio 2004, gli diede ragione in una storica sentenza contro Ryanair; nella sentenza d'appello nel dicembre dello stesso anno, la compagnia e l'aereoporto di Stansted vennero giudicati responsabili in solido per legge per il servizio gratuito di sedie a rotelle ai viaggiatori disabili.
    Quando appaiono sui media queste storie, spingono molti altri passeggeri a riferire le loro esperienze di viaggio con Ryanair. Le proteste hanno raggiunto un livello tale in Gran Bretagna che alcuni giornali hanno rubriche dedicate esclusivamente alle lagnanze dei consumatori Ryanair. O'Leary sostiene che la compagnia riceve dai propri clienti meno rimostranze di qualsiasi concorrente e che Ryanair e' la compagnia aerea piu' amata della Gran Bretagna.
    L'aereolinea ha preso l'impegno di pubblicare le statistiche mensili del customer service; i dati relativi a gennaio mostrano che l'89 percento dei suoi 23.000 voli e' arrivato in orario e che soltanto un bagaglio ogni mille passeggeri e' andato smarrito. Ryanair ha ricevuto mediamente meno di un reclamo ogni mille passeggeri ed ha dichiarato di avere risposto a ciascuno di essi entro sette giorni. I passeggeri disaffezionati direbbero che il basso numero di reclami sia dovuto alla pretesa di Ryanair che i clienti presentino le loro contestazioni in forma scritta, "La maggior parte della gente ormai sa che, probabilmente, Ryanair si limitera' a dire loro di non scocciare, percio' non sta neanche a sprecare i soldi per il francobollo", sostiene una fonte del settore aereoportuale.

    -------------

    L'autorita' antitrust britannica ha costretto la compagnia a redigere una carta del passeggero piu' favorevole ai clienti dopo aver accusato Ryanair di avere ingiustamente respinto i reclami dei passeggeri relativi allo smarrimento od al danneggiamento dei bagagli. La compagnia e' oggi impegnata a "fare ogni possibile sforzo" per recapitare gratuitamente al passeggero il bagaglio smarrito entro un giorno lavorativo dall'arrivo alla destinazione finale.
    La cronaca cittadine del Guardian ha soprannominato la compagnia "Eire O'Flot" ed ha istituito concorsi dal nome di "My Ryanair Hell" e "Ryanair-Miles" per domandare ai lettori di indovinare quale aereoporto tra quelli serviti da Ryanair fosse il piu' lontano dalla presunta destinazione: Francoforte (Hahn), Oslo (Torp), Stoccolma (Skavsta), Disneyland Paris (Reims) o Helsinki (Pirkkala) ? Al vincitore era offerto un viaggio in Irlanda per visitare la fattoria e la splendida dimora di O'Leary a Mullingar. La risposta esatta della competizione, che ebbe grande successo, era Reims, distante centinaia di miglia da Disneyland Paris, anche se molti lettori indicarono Hahn, distante due ore di viaggio dalla capitale finanziaria tedesca.
    Fra questi un lettore irlandese, Michael O'Laoire di Mullingar. Il giornale sostenne che egli non fosse altri che il capo di Ryanair, che avrebbe partecipato alla competizione utilizzando la forma irlandese del proprio nome.
    La rivista Forbes, ha incluso O'Leary, l'uomo piu' celebrato, par la trasformazione di una piccola e squattrinata compagnia aerea irlandese, nel piu' grande vettore low-cost europeo e che intende inaugurare le rotte transatlantiche nel 2009, nella lista dei primi venticinque business men del mondo. O'Leary sostiene di non nutrire alcun interesse per questo genere di elogi. In occasione del premio di business leader of the year, dichiaro' "Di solito un premio porta l'azienda, o l'idiota che lo vince, a sentirsi un po' troppo compiaciuto di se'. Ma io ero un idiota anche prima".
    E' assolutamente convinto che Ryanair arrivera' ad essere la piu' grande compagnia aerea del mondo. "L'ambizione non ci manca, non ci inchiniamo di fronte a nessuno. Le suoneremo a tutti in Europa, non arriveremo secondi o terzi, per poter dire -Siamo andati bene no?-".
    Per festeggiare quel traguardo O'Leary ha promesso che lancera' una nuova campagna pubblicitaria con un San Patrizio ubriaco che dice: "Come butta? Io volo Ryanair, la compagnia aerea piu' amate del mondo"
    A O'Leary piace molto sfidare pubblicamente le altre compagnie con pubblicita' insolenti o mettendo in scena eccentriche trovate pubblicitarie. Nel 2003 arrivo' a Luton in mimetica a bordo di un carro armato della seconda guerra mondiale alla testa di un battaglione di lavoratori Ryanair, per condurre un attacco pubblicitario in grande stile contro il rivale diretto easyJet. Sostenendo di essere in missione per "liberare il pubblico" dalle tariffe del rivale, incito' le truppe con il megafono ad intonare, come fosse una marcia militare il ritornello:
    "Me lo hanno detto, e non e' una bugia, le tariffe easyJet sono troppo alte!"
    O'Leary ama dire alla gente di andarsene a quel paese, ricorrendo solitamente al linguaggio piu' colorito che si possa immaginare. Ha dichiarato di non avere nessuna remora a dire di andare a quel paese a chi chiede il rimborso di un biglietto Ryanair. Il suo insulto preferito e' dare a qualcuno del "wanker" (pipparolo). Ha dato anche degli "svitati" e dei "comunisti" ad alcuni politici europei in vista, mantre alla commissione europea ha riservato l'epiteto di "Impero del Male". O'Leary ha anche coniato una nuova parolaccia "bolloxology" (fuffologia), tanto per arricchire la lingua inglese. Il sito web di Ryanair suggerisce di usare liberamente tale termine nelle interviste con i giornalisti della carta stampata parlando di quelle procedure che altre compagnie ritengono complesse, come per esempio l'incapacita' di Aer Lingus (compagnia di bandiera irlandese) di pubblicare le statistiche sulla puntualita'.
    E' stata un'idea di O'Leary quella di esigere che i passeggeri portassero con se' il passaporto, se volevano volare con Ryanair, stabilendo che questa fosse la sola forma di identificazione accettabile ed ordinando al personale di far rigidamente rispettare tale disposizione, e cosi' e' stato.
    Tara-Palmer Tompkinson, star del reality televisivo "Get me out of here", si infurio' quando le venne detto che non poteva imbarcarsi su un volo STansted-Blackpool, perche' priva di passaporto. "Quando sono arrivata a Stansted, ho firmato autografi a tutto l'equipaggio del volo" disse ai media, "ma quando si e' trattato di salire a bordo dell'aereo, la donna al banco del check-in mi ha detto che non potevo imbarcarmi, che avevo bisogno del passaporto, di un passaporto per tornare a BLackpool!! Non potevo credere alle mie orecchie. Mi dissero che c'era bisogno del passaporto per dimostrare formalmente la mia identita'. Non stavo neanche uscendo dall'Inghilterra, ma non volevano accettare nient'altro, neanche la copia di "Hello!" con la mia foto in copertina". _Un mese prima Ryanair aveva rispedito a casa per la stessa ragione la star televisiva Jeremy Beadle. Il direttore commerciale di Ryanair, Kathryn Munro, spiego' che la compagnia faceva rispettare il proprio protocollo senza eccezioni. "Non importa se sei Jeremy Beadle, Tara Palmer-Tompkinson o Sua Santita' il Papa: se non hai il documento di identita' non sali sul nostro aereo" Un ex dipendente Ryanair ricorda di aver sentito dire a O'Leary che se qualcuno si fosse presentato al banco del check-in senza il passaporto, dicendo di conoscerlo, erano pianamente autorizzati a dirgli di "andarsene a quel paese". "Avremmo potuto anche rimbalzare sua madre e lui non avrebbe battuto ciglio", dice l'ex dipendente. "E' un uomo di parola, sotto questo aspetto".
    Oggi O'Leary e la sua deliberata sfrontatezza sono praticamente sinonimi di Ryanair. Dopo che entro' a far parte del consiglio di amministrazione nel 1988, inizio' a giocare un ruolo via via piu' decisivo per le fortune della compagnia, fino a diventarne amministratore delegato nel 1993. Ma l'uomo che fondo' Ryanair, guidandola attraverso le difficolta' dei primi anni, era una persona piuttosto diversa, vale a dire l'uomo d'affari iconoclasta dal nome di Tony Ryan.

    Edited by TullioConforti - 12/6/2008, 23:07
     
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    :unsure: ci riprovo?


    Bel colpo (favola) - Candido 1957 - G. Guareschi.


    Il ragazzo sbirciò ancora il suo orologio da polso, poi disse timidamente: “Temo che farò tardi”.
    “Per una volta non cascherà il mondo” gli rispose la madre.
    “Sono arrivato tardi anche ieri e ieri l’altro” spiegò faticosamente il ragazzo. “Se stamattina non sarò puntuale mi lasceranno fuori”.
    La madre ebbe facilmente il sopravvento sulla moglie: “Se tuo padre ha delle preoccupazioni per gli affari, non è giusto che ci vada di mezzo tu!” esclamò aggressiva la donna. Proprio in quel momento apparve sulla porta del tinello il marito: una brutta barba di tre o quattro giorni lo faceva sembrare ancora più pallido.
    La moglie lo guardò infastidita: “Siamo in regime di economie” disse “e bisogna evitare gli sprechi. Però non puo’ essere la spesa per una lametta da barba a pregiudicare il bilancio della tua azienda”.
    Senza rispondere, l’uomo si sedette di fronte al figlio e prese a fissare, a testa bassa, la tovaglietta a grandi riquadri colorati.
    La moglie gli mise davanti la solita tazza di caffè bollente: “Cerca di sbrigarti” borbottò. “Per colpa tua il ragazzo ha fatto tardi a scuola già due volte. Dammi la chiave che ti apro il garage, così guadagni tempo”.
    L’uomo scosse il capo: “Troppo tardi” rispose continuando a rimirare la tovaglia. “Fra mezz’ora saranno qui”. “Chi?” “I nuovi proprietari della macchina e del resto”.
    La moglie andò a sedergli di fronte, a fianco del ragazzo e lo fissò con occhi sbarrati per lo stupore: “Spiegati”.
    “Ti ho sempre nascosto la gravità della situazione: dapprincipio perché speravo di farcela; da ultimo perché speravo in un miracolo. Non ce l’ho fatta e non è avvenuto il miracolo. Stamattina venderanno all’asta la macchina, la casa, i mobili. Quel poco che ancora ci resta”.
    “E l’azienda?” ansimò la moglie.
    “Non è più mia: ho dovuto cederla. Mi occorreva denaro contante e mi hanno preso per il collo. Adesso venderanno la casa. La somma che rimarrà scoperta la pagherò poi io personalmente. Con qualche anno di prigione”.
    La donna lanciò un grido: “Mio Dio! Bancarotta fraudolenta!”
    “Peggio” rispose tristemente l’uomo “Evasione fiscale”.

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    “Ah! Erano questi i piccoli fastidi col fisco di cui mi hai parlato l’anno scorso l’altr’anno?”
    “Sì”spiegò l’uomo. “Tra la multa e il restonali, il, un centinaio di milioni da pagare in due anni. Sono riuscito, vendendo l’azienda che ne valeva duecento, a pagarne sessantacinque. Ora vendendo casa eccetera del valore di trenta milioni, riuscirò a pagarne altri dieci o dodici. Rimarrà sempre in sospeso un conto grosso. E il fisco è un creditore che non perdona”.
    La donna singhiozzando andò a rifugiarsi nella sua stanza e l’uomo e il ragazzo rimasero soli.
    Fu la voce del ragazzo a rompere quel silenzio angoscioso.
    “Papà cos’è il fisco?”
    L’uomo si riscosse e trovò la forza di sorridere:
    “Non è facile spiegarlo” rispose. “Per farti un’idea, pensa al controllore del treno. Il controllore passa da scompartimento a scompartimento chiedendo ai viaggiatori il biglietto. Se un viaggiatore è senza biglietto deve pagare il biglietto più la multa. Il servizio ferroviario permette a una persona di spostarsi da una località all’altra: ma, per far funzionare la ferrovia, lo Stato spende tanto danaro e, allora, chi vuol spostarsi da una località all’altra deve pagare il biglietto. E’ chiaro?”
    Il ragazzo fece di sì scuotendo la testa e il padre continuò:
    “Come succede per la ferrovia, accade anche per tutti gli altri servizi organizzati dallo Stato: le strade, i ponti, le scuole, la polizia, i tribunali, il Parlamento etc. son tutte cose che costano e che ogni cittadino deve pagare in proporzione di quello che guadagna. E quelli che guadagnano molto pagano anche per coloro che guadagnano poco. Ogni anno il cittadino fa la lista di quello che ha guadagnato e la presenta al fisco che stabilisce, secondo la tariffa, quanto il cittadino debba pagare allo Stato. Naturalmente, se il fisco si accorge che il cittadino ha dichiarato dieci mentre invece ha guadagnato venti, fa pagare al cittadino per venti oltre alla multa. Come il controllore del treno. Io ho guadagnato, mettiamo venti, e ho dichiarato dieci e così, siccome non ho il denaro per pagare, lo Stato mi porta via tutte le cose che mi restano”
    L’uomo ci pensò su un momentino e poi, con amarezza, rettificò: “Che ci restano. Perché porterà via non solo le cose mie, ma anche quelle tue e della mamma. Anzi ricordati di dire alla mamma, quando torna, di togliersi l’orologino d’oro dal braccio e di nasconderlo. Almeno salvi quello”.
    Il ragazzo, tenendo le mani sotto la tavola, si slacciò dal polso l’orologio che il padre gli aveva regalato perché era stato promosso e, cautamente, se lo infilò nel taschino della camicia.
    Che effetto sentirsi lì sopra il cuore, quel tic-tic.
    Anche a lui sarebbe rimasto qualcosa e il pensiero lo consolò. Poi ripensò al ragionamento del padre. In verità, suo padre aveva fatto una gran brutta cosa a dichiarare di aver guadagnato dieci mentre aveva guadagnato venti. Non si capacitava come mai suo padre avesse commesso una scorrettezza del genere.

    (CONTINUA)
     
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    “Babbo” domandò timidamente il ragazzo “perché non hai detto il giusto?”
    L’uomo allargò le braccia:
    “Lo Stato spende il denaro del cittadino, non solo per fare le strade, per pagare la polizia e i tribunali, per far camminare i treni etc. Per queste cose ne spende solo una parte. Una piccola parte, diciamo. Il resto lo spende in cose che non servono a tutti i cittadini, ma soltanto a quei cittadini che governano lo Stato e agli amici di questi cittadini…”
    Il discorso si faceva difficile e l’uomo cercò di semplificare: “Quando s’andava dalla zia Antonia, tu, poco prima di entrare in città, non hai mai notato quel grande canale che costeggia la strada?”.
    “Sì, tu ti arrabbiavi ogni volta e litigavi con la mamma”.
    “Non litigavo. Le spiegavo come stavano le cose a proposito di quel canale. Perché da dieci anni stanno lavorando attorno a quel canale, e, da dieci anni, lo Stato, o chi per esso, continua a pagare milioni e milioni senza ottenere niente. Il canale, che in sei mesi poteva essere sistemato, dopo dieci anni di lavori è ancora al punto di prima. Ecco: lo Stato spende milioni e milioni in mille faccende di quel genere. Faccende diverse ma che danno lo stesso utile del famoso canale. Allora io ho pensato: se denuncio il mio guadagno giusto, siccome la tariffa è spaventosamente alta, non mi resta più il denaro che m’occorre per impiantare l’azienda che sogno da tanti anni. Se dico dieci invece di venti, io posso organizzare qualcosa che non c’è. Posso dar vita a una attività produttiva che è utile a tutti, perché dà lavoro e guadagno a tanta gente: salvo cioè del denaro che finirebbe annegato nelle acque di quel famoso canale. Il ragionamento era giusto e lo si puo’ dimostrare: se quel denaro lo avessi dato allo Stato, io non avrei potuto creare la mia fabbrica e la fabbrica oggi, non ci sarebbe perché lo Stato non l’avrebbe mai fatta. Invece, adesso, anche se la fabbrica non è più nostra, esiste e produce e dà lavoro e guadagno a tantzioa gente. Noi non costruiamo mai per noi stessi ma per coloro che verranno. In cinquecento anni, centomila bocche si sono sfamate coi prodotti di quella terra che un ignoto Tizio ha potuto dissodare e fertilizzare perché diceva ogni anno di aver guadagnato dieci anziché venti o cinquanta. Questa casetta è stata costruita col denaro salvato dalle acque del canale. Da domani non sarà più nostra ma non scomparirà e servirà a tanta gente. Se il denaro l’avessi dato tutto allo Stato, questa casa non ci sarebbe e non ci sarebbe neanche più il denaro”.
    Il ragionamento tranquillizzò il ragazzo. E il ragazzo non si turbò neppure quando il padre, onestamente, precisò: “Secondo lo Stato io ho sbagliato. Secondo la mia coscienza no. Però ricordati, figlio mio, che chi si mette contro lo Stato finisce in prigione”.
    L’uomo si era rasserenato: Il ragazzo era con lui, glielo leggeva negli occhi, e l’avvenire gli si presentava assai meno preoccupante. Pensò alla moglie: “Se anche lei sarà con me, troverò la forza di ricominciare da capo” pensò.
    Ma la moglie non era con lui né poteva esserlo. Riapparve con gli occhi asciutti: “Cosa faremo adesso?” disse aggressiva al marito. “Voglio sperare che avrai messo le mani avanti a tempo”.
    “No” confessò l’uomo. “Non ho predisposto niente. L’unico vero ed effettivo capitale mio, che nessuno potrà portarmi via, è quello che ho dentro la testa”. “Bel capitale!” rise la donna. “Quel tanto che mi basterà per ricominciare da zero. Quando ho iniziato non avevo di più”
    “Ma non avevi neanche un figlio” replicò la donna “Non avevi gli anni che hai adesso, non avevi l’esaurimento nervoso. Ricominciare da zero! Tu sei come l’uomo che si è spezzato inguaribilmente una gamba facendo un saldo di due metri e adesso, con una gamba sola, vorrebbe riprendere l’allenamento per arrivare a saltare due e dieci. Cosa potrai fare? Ti ripresenti in campo disonorato e screditato!”
    L’uomo tentò di balbettare qualcosa ma la moglie gli saltò sulla voce: “Sì disonorato davanti agli incapaci e screditato davanti alla gente in gamba “Pareva un galantuomo” diranno gli incapaci “e invece è un disonesto, un frodatore”. “Pareva un uomo intelligente” diranno i tipi in gamba”e invece non è che un merlo e si è fatto pescare dal fisco!” Cosa faremo, senza niente, senza nemmeno una casa, con un ragazzo di dodici anni e la prospettiva della prigione per te e della miseria per tutti?”.

    (CONTINUA)
     
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    La donna era disperata e continuò a parlare e a urlare e a inveire e a singhiozzare: e l’uomo provò pena per la poveretta. Una pena immensa, un’angoscia che gli troncava il respiro.
    Si alzò faticosamente da tavola, guardò gli occhi pieni di lacrime del ragazzo e s’avviò verso la porta.
    La donna non lo lasciò: lo seguì su per la scala, e quand’egli si abbandonò sul suo letto ancora disfatto, gli si sedette a fianco continuando a gemere e a strillare.
    Il ragazzo rimase solo.
    Solo ad ascoltare, sopra il cuore, il tic-tic dell’orologio che lo Stato non avrebbe potuto portargli via.
    Lo riscosse un urlo straziante della madre.
    Si precipitò su per le scale: trovò la madre inginocchiata a fianco del letto, aggrappata disperatamente all’uomo il cui cuore, oppresso dall’angoscia, si era improvvisamente spento.
    In quell’istante suonò il campanello.
    Il ragazzo corse nella stanza verso mattina, quella che il padre aveva sempre usato come stanza di riposo, e andò a spiare cauto da dietro le gelosie socchiuse.
    Il campanello suonò ancora imperiosamente. Si trattava di gente che non era avvezza a fare anticamera: erano in sei o sette e scalpitavano davanti al cancello della grande villa isolata nella campagna. Uno, vestito di scuro, con una gran borsa doveva essere quello che rappresentava lo Stato; gli altri suoi assistenti.
    “Assassini! Me l’hanno ammazzato!” L’urlo della madre fece sobbalzare il ragazzo. E il campanello rabbiosamente strepitò per la terza volta, e qualcuno del gruppo incominciò a scuotere il cancello: allora il ragazzo collegò l’urlo della madre a quella gente.
    Il fucile da caccia del padre era lì, appeso al muro, assieme alla cartucciera e al carniere: un pesante Browning a cinque colpi. Sapeva usarlo: il padre gli aveva insegnato a sparare al piattello.
    Era carico e il ragazzo sparò tutti e cinque i colpi attraverso lo spiraglio delle gelosie.
    Starnazzando, gli assedianti abbandonarono il cancello e disparvero. Ma il ragazzo ricaricò il fucile e rimase di vedetta.
    Qualcuno si mosse poco dopo dietro la cancellata e il ragazzo sparò ancora e ancora ricaricò.
    Il caso era grave: “E’ un uomo deciso, gran cacciatore, campione del piattello. Tira benissimo” aveva spiegato la gente che, stanata dalle case vicine, s’era radunata a duecento metri dalla villetta solitaria, dietro un muraglione mezzo diroccato.
    Le forze locali dell’ordine non avevano i mezzi sufficienti per ridurre alla ragione il pazzo criminale e telefonarono alla polizia.
    La polizia, arrivata con le autoblindo e tutto l’armamentario d’assedio, subito entrò in azione.
    Un milite e un graduato con elmetto e mitra, strisciando sopra il muretto della cancellata, raggiunsero un pilastro del cancello: ma la piccola vedetta aveva gli occhi buoni e sparò cinque colpi.
    “Quel fetente ha un mitra” borbottò il milite.
    “Ce l’ho anch’io!” replicò il graduato che aveva identificato la finestra dalla quale erano partiti i colpi.
    Il pilastro gli offriva un ottimo riparo: quando, dallo spiraglio delle gelosie, vide riaffiorare la bocca del fucile, il graduato era già col dito sul grilletto.
    Una raffica partì: mirata bassa, rasente al davanzale.
    Il fucile rimase in bilico qualche istante sul davanzale, poi precipitò nel giardino.
    “Bel colpo maresciallo” si felicitò il graduato.
    Quando furono sicuri che la difesa era stata neutralizzata, con l’autoblindo abbatterono il cancello ed entrarono nel viale del giardinetto.
    La porta della villetta non era chiusa: salirono cautamente. Quando spalancarono la porta della stanza ad est, erano pronti ad oscurare il sole con un nembo di proiettili, ma non ce ne fu bisogno. Trovarono solo una povera donna accosciata per terra vicino a un fagottello di stracci insanguinati.
    “Assassini, via” urlò la donna alzandosi e cercando di respingere gli invasori.
    “Arrestatela” ordinò il graduato.
    La trascinarono via come un sacco di patate: e il ragazzo rimase solo, raggomitolato a piè del davanzale della finestra.
    E, di vivo, in lui c’era soltanto l’orologino che, dentro il taschino sopra il cuore, continuava a fare tic-tic.
    Lo Stato aveva vinto.

     
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