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  1. TullioConforti
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    FURIO CAMILLO

    Esiste a Roma, non a caso al tuscolano, una fermata della metro intitolata a Furio Camillo.

    Ma chi era costui? Pochi sanno che si tratta di un uomo eccezionale, vissuto a Roma ben quattrocento anni prima di Cristo, quando Roma era una fervente repubblica, dotata di un sistema istituzionale incredibilmente moderno ed efficente, in un tempo buio, durante il quale nel resto del mondo dominava la legge bruta della natura mentre a Roma disponevano di un Senato per emanare le leggi, dei tribuni della plebe per difendere i diritti delle classi meno abbienti, due consoli, tribuni militari che assumevano di volta in volta un ruolo dittatoriale in tempo di guerra e cosi' via.

    Roma deve gli albori della sua grandezza soprattutto a questa incredibile organizzazione istituzionale, dove una parvenza di diritto veniva garantita a tutti, e la gente accorreva per vivere nell'urbe, perche' la qualita' della vita era decente paragonata alle monarchie assolutiste dove la vita e la morte potevano dipendere dal capriccio di un monarca, generalmente rozzo e brutale.

    Fa una certa impressione pensare che la prima guerra di conquista di Roma sia stata intrapresa ai danni di una citta' che non esiste piu', ovvero di un sito che adesso e' solo materia per gli archeologi.

    Il pianoro tufaceo su cui sorgeva Veio, a quindici chilometri dal centro dell'Urbe, infatti non ha avuto alcuna continuita' insediativa nel corso dei secoli.

    Eppure quell'antica citta', avamposto meridionale etrusco, un popolo misterioso di origine sarda, di cui era stato probabilmente una colonia, e che ne avrebbe ereditato usi e costumi, ne diede di filo da torcere ai romani, fin dall'eta' regia, al punto che la sua conquista e la sua caduta dopo ben dieci anni di guerra, sono narrate dalle fonti dell'epoca come una nuova guerra di Troia, con una serie di paragoni omerici.

    E come in ogni epopea che si rispetti emerge un eroe, l'artefice del successo finale dei capitolini, il novello Odisseo, che con la sua astuzia riesce a portare a termine un conflitto talmente estenuante per i romani da aver provocato cambiamenti radicali nell'ordinamento militare e nell'Urbe.

    Quell'eroe, il primo capitano che apri' ai romani la brillante e pericolosa via delle conquiste straniere, era Marco Furio Camillo, spuntato fuori quasi dal nulla per tutti gli autori antichi, tranne che per Plutarco; Il grande biografo greco ci informa che anni prima, nel 431 a.C., appena sedicenne, questi si era distinto nella battaglia del lago Regillo, nella quale il dittatore Aulo Postumio Tuberto, aveva sconfitto equi e volsci; il giovane, pare, mentre infatti cavalcava in testa a tutto l'esercito, raggiunto da un colpo alla coscia, non cedette, ma estrasse il giavellotto, infisso nella piaga e si azzuffo' con i nemici piu' valorosi, volgendoli alla fuga.

    Il ragazzo faceva parte di un'antica famiglia patrizia di Tuscolo, la gens Furia, di origini etrusche.

    Il comportamento eroico di Camillo al lago Regillo, non valse a garantirgli un immediato salto di qualita' nell'establishment capitolino, squassato dalle lotte tra plebei e patrizi, ma ancora saldamente nelle mani di questi ultimi. Dovettero passare ben ventotto anni prima che gli fosse affidata una carica di rilievo, ovvero quella di Censore. Dopo il consolato ed il tribunato, la censura era una delle magistrature piu' importanti dell'intero apparato repubblicano, i due che la rivestivano annualmente, oltre ad occuparsi del censimento della popolazione, gettavano un occhio alla pubblica moralita', ed erano responsabili della locazione di immobili e terreni pubblici.

    Camillo ed il suo collega MArco Postumio Albino, furono costretti ad assumere provvedimenti largamente impopolari, come la tassa sul celibato e la tassazione degli orfani, abolite dopo l'eta' regia.

    Era il 403 a.C. e la lunga volata finale contro Veio, era gia' iniziata. Serviva denaro perche' proprio in quell'anno si decise di prolungare le campagne annuali anche al periodo invernale, privando la guerra di una soluzione di continuita' fino alla sua conclusione.

    Camillo inizio la sua avventura militare da tribuno di guerra, impegnato contro alcuni alleati di Veio che stavano devastando le campagne circostanti per distogliere i romani dall'assedio alla citta'.

    Queste operazioni dovettero essere considerate brillanti perche' da quel momento a Roma si comincio' a pensare a Furio Camillo come ad un leader militare di punta.

    Una volta sotto le mura di Veio Furio, distolse i soldati dagli sterili tentativi di assalto che avevano caratterizzato la guerra fino ad allora, e li impegno' in operazioni di fortificazione, potenziando il vallo che cingeva la citta' ormai da anni, ma soprattutto nello scavo di una galleria che conducesse alla cittadella assediata.

    Livio racconta con dovizia di particolari, come il dittatore abbia istituito varie squadre di scavatori, di sei uomini ciascuna, che si davano il cambio ogni sei ore, lavorando ininterrottamente ed ad una profondita' tale da non rivelare ai nemici lo svolgersi dei lavori. Ancora oggi esiste un tunnel tra Fosso Formello e Fosso Fiordo, che congiunge l'unico settore pianeggiante, ovvero l'unico punto dove probabilmente si erano accampati i romani con la parte di mura della citta' sovrastante.

    Quando arrivo' il momento di dare gli ultimi colpi di piccone, Camillo, che la tradizione descrive come un uomo in grado di infondere grande sicurezza ai soldati, considero' la conquista cosa fatta, ed inizio' a pensare al bottino, che si prevedeva spropositato rispetto a quelli guadagnati nelle guerre condotte fino ad allora dai romani. Nel precedente scontro con falisci e capenati, alleati di Vejo, ne aveva data la gran parte al questore, ovvero allo Stato, dividendo il rimanente tra i soldati; ma stavolta la questione rischiava di divenire l'ennesimo pretesto per un litigio tra plebe ed istituzioni, e Camillo preferi' richiedere disposizioni al senato.
    Ma perfino il Senato giudico' la patata troppo bollente, e dopo aver a lungo discusso sull'opportunita' di utilizzare il bottino per pagare lo stipendio ai soldati e diminuire contestualmente i tributi, delego' a sua volta la decisione alla plebe.

    Questa decreto' che chiunque volesse fare un po' di preda potesse andare a Vejo ad arraffare cio' che poteva.

    Con un enorme esercito a disposizione Camillo scateno' una serie di assalti diversivi contro le mura, per distogliere l'attenzione dei difensori dal vero attacco che si sarebbe profuso attraverso la galleria.

    Si dice che il dittatore, posto termine alla strage, seguita all'assalto, e dato il via al saccheggio, una volta constatato che il bottino era superiore alle aspettative abbia invocato una minima sventura su di se, per placare gli Dei, subito dopo scivolo' e cadde, e cio' lo indusse a ritenere che la sua preghiera fosse stata esaudita, col minimo sforzo. Ben altre invece erano le sventure che lo attendevano al ritorno in Patria.

    Il popolo infatti comincio' subito ad avercela con lui, nonostante che Camillo ottemperasse alla legge sulla divisione indiscriminata del bottino, solo perche' non aveva deciso in tal senso egli stesso ed avesse venduto al'asta gli uomini liberi, il cui ricavato fu l'unico denaro a finire nelle casse dello Stato.

    Del resto il condottiero ci mise anche del suo per indisporre la gente. Al suo ritorno in citta' fu accolto da un tripudio di folla, la gioia per la fine di una guerra che era costata tante sconfitte a Roma era grande.
    Quando il dittatore sfilo' su un cocchio trainato da quattro cavalli binachi, paragonandosi cosi' a Giove, che le statue raffiguravano proprio in quel modo, il malumore della plebe, aumento' ed il trionfo fu piu' splendido che ben accetto.


    --continua--

    Edited by TullioConforti - 7/12/2008, 22:47
     
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    da "La scoperta di Milano" di G. Guareschi --

    Padre!

    Ecco: due creature del buon Dio, un giovane uomo e una giovane donna, un bel giorno si prendono a braccetto: “Camminiamo insieme” decidono.
    Cominciano a camminare in fretta, in gran fretta: la strada da percorrere è lunga, difficile e piena di promesse. Bisogna fare alla svelta, non c’è tempo da perdere se si vuol arrivari ai momenti sconosciuti che si intravedono laggiù sulla linea dell’orizzonte.
    A un bel momento, le due creature del buon Dio si fermano di scatto: chi chiama, nascosto dietro il cespuglio che sorge in mezzo a quel prato verde, pieno di fiori gialli e blu?
    Si abbandona la strada maestra, si corre in mezzo all’erba: dietro al cespuglio c’è un affarino, piccolo piccolo, con due gambette corte corte. Una rosea gabbietta di strilli.
    Le due creature del buon Dio si fermano. Lo si riprenderà dopo, il viaggio sulla strada maestra verso le montagne dell’orizzonte! Quando anche quel minuscolo uomo potrà camminare. Si farà la strada insieme allora.
    Così si sosta nel prato verde a fianco della strada maestra e, a poco a poco, si dimentica che esiste una strada maestra che conduce a sconosciuti colli e il prato con i fiori gialli e blu diventa il punto d’arrivo. Quando il piccolo arnese urlante sarà diventato un grosso giovanotto, ci si ricorderà della strada lasciata a metà e dei colli lontani: ma ormai sarà troppo tardi per rimettersi in cammino: le gambe non reggerebbero più. Camminerà lui per la strada, e arriverà lui ai colli lontani. Invece anche lui si fermerà e troverà un piccolo arnese che lo chiamerà celato dietro a un cespuglio.
    Questa è la vita dell’uomo qualunque: a un bel momento, l’uomo qualunque si trova seduto a fianco della compagna di cammino, in un prato verde, a guardare un piccolo mascalzoncello che dorme con un piedino in bocca. E dice sorridendo: “Margherita, il nostro bambino oggi compie dieci mesi”. “Pensa che fra due mesi avrà un anno” risponde Margherita a Giovannino. E Giovannino, davanti a quella semplicissima operazione aritmetica, rimane stupito come Pietro di fronte alla moltiplicazione dei pani e dei pesci.
    Tutto diventa importantissimo se riguarda il piccolo masnadiero.
    “Giovannino” grida Margherita, “il bambino ha gli occhi aperti! Giovannino il bambino fa così col dito indice della mano destra! Giovannino il bambino si gratta il naso!
    E Giovannino prende visione degli straordinari fenomeni e approva soddisfatto.
    Sono già dieci mesi che io e la dolce creatura che Dio sparse a piene mani sul mio cammino abbiamo lasciato la strada maestra per cominciare un infernale girotondo attorno al piccolo fagottello urlante che ha gli occhi aperti, fa così col dito indice della mano destra e si gratta il naso.
    Come è stato?
    Un giorno, ritornando a casa dal lavoro (il segreto del successo, in questa straordinaria città, è tornare ogni giorno a casa dal lavoro) ho trovato il mio letto invaso da un piccolo arnese sconosciuto.
    Considerati i precedenti e udite le dichiarazioni di testimoni oculari che avevano assistito all’arrivo dello strano personaggio, conclusi che mi trovavo al cospetto di un figlio di sesso maschile.
    La dolce signora che divide con me le gioie e i dolori del mio stipendio, fece emergere la testa dalle lenzuola.
    “Ebbene?” mi chiese “Non mi dici niente?”
    Domandai se c’era posta. Poi, avendo compreso dagli sguardi severi raccolti nei paraggi, ce non ero stato espansivo come avrei dovuto, mi avvicinai a mio figlio e gli picchiai una buona manata sulla spalla esclamando molto giovialmente “Come va vecchio mio?”
    Quattro o cinque urla esprimenti indignazione, riprovazione, dolorosa meraviglia, esecrazione, commentarono il mio gesto. Quindi due mani robuste mi spinsero energicamente fuori dalla porta.
    Andai a passeggiare per la città, e ben sapendo che i bambini sono particolarmente ghiotti di frutti canditi, croccante, cioccolata, caramelle, torrone e piccoli scarafaggi di liquerizia me ne procurai un bel cartoccio. Siccome poi volevo, fin dal primo momento, stabilire cordiali rapporti con mio figlio, ma nello stesso tempo intendevo dargli una mentalità sportiva, gli comprai una bicicletta. Mi procurai anche un pacchetto di sigarette leggere: gliele avrei passate poco alla volta, di nascosto da sua madre.
    Ritornai a casa carico come un mulo: ma debbo confessare con rincrescimento che il mio pensiero gentile non fu apprezzato: anzi quando offrii un pezzetto di croccante, mi si urlò da varie parti che ero un incosciente e che per la mania di fare dello spirito assassinerei un uomo.
    Allora mi misi in un angolino e studiai mio figlio: non mi fece un’impressione troppo soddisfacente, sua madre andava dicendo che era una meraviglia, ma io lo confesso, a malapena riuscivo a capire qual era il naso e qual era la bocca.
    I bambini hanno uno strano potere: sono un richiamo potentissimo per i parenti. Quando nasce un bambino, anche i parenti più lontani piombano intorno alla sua culla. Così nel pomeriggio arrivarono. Il bambinello fu considerato attentamente e quindi la zia Flaminia disse che il bambino era tutto suo padre. Lo zio Luigi si mise a ridere: ma neanche per sogno! Il bambino era tutto sua madre. Ci fu una breve discussione serrata alla fine della quale la zia Flaminia mi afferrò per un braccio mi trascinò davanti al letto e volle che tutti prendessero visione delle parti più importanti del mio viso onde fare dei confronti.
    La cugina Francesca affermò recisamente che il naso e il mento erano i miei ma il resto apparteneva alla compagna della mia vita.
    Mio fratello giurò che ci si era indirizzati su una strada completamente sbagliata e che il bambino era il ritratto parlante del povero nonno Giacomo.
    La cognata Maria espressa la convinzione che il bambino e la povera nonna Giuseppina erano una mela spaccata.
    La zia Flaminia, ristabilito il silenzio, decise che il naso era mio, la bocca della signora che mi ha reso padre, il mento del povero nonno, la testa della povera nonna, le orecchie dello zio Gerolamo, l’andatura della zia Cristina, le mani della povera nonna Giuseppina. Per gli occhi, niente di stabilito in quanto erano ancora chiusi. Le palpebre, però erano quelle del povero zio Filippo.
    Mi allontanai discretamente: sul pianerottolo del terzo piano trovai la signora Camilla e la signora Rosina le quali dopo avermi studiato da vicino, sospirarono scuotendo il capo: “Caso mai assomiglia a sua madre. Povero pupo!”
    Il portalettere che stava salendo mi picchiò paternamente la mano su una spalla: “Lasciate che dicano, chi non vede che assomiglia spaccato a voi o è un cieco o un mascalzone”
    L’uomo del latte, invece, dopo avermi fatto mettere contro luce e di profilo, concluse con la cameriera del primo piano che per lui il bambino assomigliava a Garibaldi: una volta avesse avuto la barba e i baffi la cosa sarebbe stata lampante.
    La portinaia, appena mi vide si mise ad urlare: “Zelinda, Marietta, Francesca! Venite a vedere se ho ragione o no! Tutto suo padre dal naso in su!”
    Lasciai le donne a discutere tra loro. La giornalaia che è tifosa del cinema, nel porgermi il giornale mi assicurò: per lei il bambino era la copia perfetta di Gary Cooper.
    Gironzolati fino a tardi per comprare per mio figlio diversi libri istruttivi. Poi ritornai a casa.
    Ma mi fermai in anticamera, perché dalla stanza da letto, veniva il rumore di un’animata discussione.
    La zia Flaminia stava urlando che il mestiere migliore per un uomo oggi è quello del medico. La Luigia giurava che lei, se avesse un figlio, lo farebbe ingegnere. Lo zio Luigi affermava che ogni mestiere è onorevole e anche un bravo tornitore è rispettabilissimo.
    Ecco tutto. E l’unica cosa che, quella volta, ho trovato strana è la faccenda dei mestieri.
    Un bambino non ha ancora finito di nascere, non ha ancora ben deciso se farà il gattino o l’uomo e subito lo vogliono far lavorare!
    Discutono davanti alla sua culla, alzando la voce: deve fare questo, deve fare quell’altro!
    Povero bambino, nessuno che dica: “Quando sarà grande dovrà andare con donne, dovrà fumare molto, dovrà vivere di rendita con il denaro che gli lascerò io, dovrà mangiare grossi polli e selvaggina”.
    Non ho più permesso che si facessero congressi sull’avvenire del mio piccolo filibustiere. Anche Margherita mi ha dato perfettamente ragione: l’avvenire è nelle mani del destino.
    Adesso il mio mascalzoncello ha compiuto dieci mesi e ha il pieno diritto di fare il disoccupato: egli non ha ancora della vita che un concetto molto approssimativo e io lo so con sicurezza perché una notte ho visto.


    ----- continua -------
     
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    Una notte mi sono svegliato di soprassalto: qualcosa mi impediva di respirare. Dopo qualche istante di riflessione ho compreso che non avrei potuto mai riattivare le mie funzioni respiratorie se non avessi tolto dalla mia bocca il piedino sinistro del mio mascalzoncello.
    Compiuta l’estrazione, ho tentato invano di riprendere il sonno interrotto. Mi sono inutilmente rigirato fra le lenzuola. La stanza era perfettamente buia: le finestre non lasciavano passare un filo di luce.
    Ho cominciato a fissare il buio e, ad un tratto, ho visto.
    Davanti a me, come se si fosse accesa una pubblicità al neon, stava un enorme poppatoio pieno di latte candido. Poiil poppatoio è scomparso con pregevole dissolvenza ed è apparso un grande biscotto.
    Non c’era da equivocare: il mio bambino sognava e io vedevo i suoi sogni.
    Trattenendo il respiro, ho spalancato i miei occhi rotondi per non perdere neppure un fotogramma.
    Il biscotto non ha durato molto, qualche secondo. Si vede che non aveva fame. Dopo il biscotto è nato nel buio un cavallo bianco con dieci o dodici gambe e sei o sette code, poi la vestaglia a fiori dell’autrice del mio matrimonio. I fiori si muovevano facendo uno strano girotondo.
    Poi è entrato in campo uno strano arnese irto di piccole braccia che picchiavano pugni su una finestra bianca: uno strano arnese con centinaia di occhi rotondi. La finestra con l’impannata bianca non stava ferma a prendersi i pugni ma tentava di scappare. La mia macchina da scrivere.
    A questo punto è scoppiato un incendio: una grande vampa seguita da una nube di fumo bianco, una nube fluttuante che aumentava o diminuiva di intensità.
    Ogni tanto appariva un occhietto rosso che si apriva e si chiudeva. Non c’era da sbagliare: il mascalzoncello sognava la mia sigaretta.
    Svanita la visione ecco alzarsi all’orizzonte qualcosa di enorme, di roseo e di pauroso. Un’unghia, un dito , un altro dito, un altro e un altro ancora. Con una veloce carrellata, il primo piano è diventato un primissimo piano: cinque dita, quattro, tre, due una. Il bricconcello sognava di mettersi un piedino in bocca. Nemmeno durante il sonno sa stare in società.
    Poi è arrivato un dirigibile lucido color nocciola, si è avvicinato fino a divenire enorme per poi abbassarsi e sparire rapidamente. Il succhiotto era naufragato nella sua piccola bocca rosa.
    Ho visto un’enorme chiave luccicante, poi una specie di colossale stendardo a righe bianche e blu, poi un altro a righe nere e rosse, poi un terzo verde a pallini bianchi, poi un quarto nero a fiorellini gialli.
    Accidenti! Ecco perché mi devo arrabbiare ogni volta che voglio vestirmi come si deve! Perbacco! Non si danno le migliori cravatte di un padre di famiglia in mano a un bambino!
    Il campo è rimasto nero per un po’ e quindi è passato svelto un angelo bianco con le ali azzurre. Ha preso quota e si è dileguato. Dopo è cominciata la serie di primi piani della dolce signora che mi rese padre. L’ho vista in tutte le espressioni: seria, piangente, sorridente, triste, lieta, contenta e malcontenta.
    Accidenti, com’era fotogenica! Mai vista una bellezza simile. La serie è terminata col primissimo piano d’un occhio luccicante nel quale si rifletteva il visto del mio mascalzoncello. Il vanitosetto si specchiava nell’occhio di sua madre.
    Ho atteso con ansia. E’ passato un gatto con quindici occhi gialli, grandi così. Poi è apparso un enorme bottone per colletto. E via via, con una lenta carrellata indietro, un colletto non perfettamente pulito, una collinetta rugosa, una specie di cespuglio fitto di sterpi nerastri e pungenti.
    La visione si è fatta tremolante e sempre più confusa come quando, al cinema, piove sull’obiettivo della macchina da presa. Sognava di pungersi con la mia dannata barba e piangeva.
    Parenti che cosa volete che possa fare una creature che vede il mondo così? L’ingegnere, l’idraulico, il commerciante?
    Il poeta al massimo.
     
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    Erano gli anni 80, la stagione delle mie prime cotte; all'ex foro boario di Ferrara si facevano delle serate danzanti; ricordo i miei compagni di scuola con cui c'incontravamo sempre: Daniela, Roberta, Lucia, Marco, Enrico, Edy, GianLuca e c'era un figo che era parente a Gianluca, poi c'erano quelli di Milano, i fratelli Nucci, certe volte veniva mio cugino che si portava un amico tonto appresso. Eh sì che tempi!!

    Erano gli anni 90, l'ex foro Boario fu abbatutto, e viene costruito un centro commerciale; dentro al Centro commerciale ci costruirono anche delle sale giochi e poi anche un bowling. Era il ritrovo di noi ragazzi; sì eravamo tutti: Marcella, la mia migliore amica, con cui poi litigai, Fabio, il mio ex, Davide, Andrea con cui ebbi una storia, Roberto, cui amai in segreto; lì conobbi la mia futura cognata, Silvia, con le sue amiche, Diana, Lucia e Rachele, coi loro corrispettivi fidanzati, Gino, Manuel e Massimo, che venivano spesso con uno poco loquace, che era di Ferrara e che veniva anche durante le sagre parecchi anni prima. Poi c'erano dei fiorentini, due fratelli di Napoli ecc ecc.Eh sì che tempi!

    Era il 2003, il centro commerciale diventò una mega-disco, lo Zoo Animal Sound, che poi diventò Madame Butterfly; venivano gente da fuori, ogni volta gente nuova, qualche pasticca, qualche avventura, qualche leccata a quelli dello staff. Mi ricordo quelli che ci provavano, ad alcuni dissi di sì, ad alcuni non li cagai nemmeno; ricordo quel figo di Roger, Costantino, Gerry, Luigi, quegli sfigati di Alberto e Giulio che si portavano spesso uno che parlava pochissimo, che già avevo visto chissà quante volte; dicevano che gli piacevo; poi fortissime erano le ragazze dello staff, Mary era bellissima, strafiga, Gioia, una ragazza aperta col coraggio di un maschio, Claudia che si scopava tutti i migliori ragazzi e soprattutto c'era Giorgia, il mio amore, che veniva sempre con me.

    Arrivò il 2011, il Madame Butterfly venne trasformato in Palacongressi e all'occorrenza Palasport o cinema. Il Fattoriland si chiamava. Venne ingrandito. Spesso per lavoro mi mandavano lì, poi c'erano concerti e feste di gala. Veniva spesso i più illustri della Ferrarabene, il marchese Ottoni, con le sue amanti, l'assessore Ahkmerabad, Costanzo il produttore, l'on. Mazarescu, poi Ahmed, con qualche suo amico figo, Shu con Lisa, il centravanti della Spal di cui non ricordo il nome, l'ex-presidente della squadra di basket, Kaers, che era uno degli principali azionari della Ferrari, ma venivano anche i soliti imbucati, Bellin, il panettiere, l'ex-presidente della Pro-loco, Ignazio, che veniva spesso con uno che non sembrava molto sveglio, che conoscevo bene di vista; Ignazio poi mi fece la dichiarazione e ovviamente dissi di no. Che ricordi!


    Arriva il 2030. Il Fattoriland è diventato un centro di realtà virtuale. Ovviamente ha cambiato diversi nomi ed è stato ingrandito. Il comune di Ferrara è spostato nelle sue vicinanze. Il VTKF è l'attrazione di Ferrara. Io lavoro lì. Vengono molti ospiti illustri a mostrare i loro programmi virtuali. Ci sono delle riunioni dove emiliani e non, vengono regolarmente. L'ex moglie del figlio di Fattori gestisce tutto da casa attraverso un telecomando. Si vendono sofisticate bibite emotive. I viaggi virtuali stanno diventando accessibili ai più; qui al VTKF incontro spesso alcuni amici di mio marito, qualche mio ex collega dell'anagrafe e spesso viene un signore molto gentile ed educato che conoscevo di vista già da tempo immane. Non è neanche sposato.


    Edited by Warlordmaniac - 5/5/2009, 20:24
     
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    (da Corrierino delle Famiglie) G. Guareschi


    Impostai con Margherita il problema della nuova generazione.
    “Le necessità e i disagi della guerra” dissi “ che avrebbero dovuto insegnare agli uomini il senso della solidarietà e della collaborazione cosa hanno invece insegnato?”.
    “Non so” rispose Margherita “durante la guerra io sono sempre rimasta sfollata fuori Milano”.
    “Capisco Margherita: questo fatto però non ha impedito che, negli uomini, invece di svilupparsi il senso della solidarietà e della collaborazione, si sia, durante la guerra, sviluppato il senso dell’egoismo. E tutto questo perché l’uomo è un essere pensante, m sragionante”.
    Margherita sospirò. “Proprio così Giovannino: mia madre me lo diceva sempre “dammi retta Margherita, sposa chiunque fuorchè un uomo”.
    Era questa la più mirabile dimostrazione che l’uomo,o meglio la creatura umana, è un essere pensante ma sragionante. Sorvolai e continuai l’impostazione del problema della nuova generazione.
    “E’ inutile tentare di correggere gli adulti” spiegai “sarebbe come cercare di raddrizzare un albero col fusto storto; dobbiamo invece preoccuparci della nuova generazione, di quella cioè che, sbocciata in questo clima di egoismo, e vedendo gli adulti praticare l’egoismo come la cosa più naturale delle attività umane porterà questo egoismo alla forma più spietata e farà di ogni singolo uomo il nemico di tutti gli altri uomini. Chi ha la possibilità deve fare comprendere alla nuova generazione la necessità della collaborazione e della solidarietà.”
    Entrò in quel momento la nuova generazione al completo, la quale generazione stava fieramente lottando intorno a uno stesso bambolotto che, stiracchiato dall’una parte e dall’altra andò miseramente in pezzi.
    Ecco”, spiegai alla nuova generazione, “il risultato dell’egoismo. Ognuno di voi lo voleva soltanto per sé, e così non l’avrà più nessuno dei due”.
    In realtà la cosa finì diversamente, perché dovetti correre giù a comprare due bambolotti identici, e così ne ebbero uno per ciascuno: ma il principio era esatto e quello che conta è il principio.
    Annunciai perciò che, la sera dell’Epifania, avrei messo anche io la calza sotto al caminetto.
    La Pasionaria mi guardò con palese disprezzo e Albertino si appressò all’orecchio della madre per farle delle comunicazioni riservate. Ma io avevo un piano preciso.
    Così anch’io appesi la calza insieme a quella della Pasionaria e di Albertino e, la mattina, le tre calze erano gonfie da scoppiare e roba era appesa vicino ad ogni calza. La brava Befana aveva messo nella calza di Albertino cinque vagoni e una locomotiva, nella calza della Pasionaria un blocco completo di rotaie con annesso ponte e galleria. E nella mia una stazione con annesso trasformatore elettrico e quadro di comando.
    Qui naturalmente accadde un piccolo disgustoso incidente: la Pasionaria entrò in agitazione e annunciò che la Befana era una cretina.
    “Mi pare anzi che sia stata molto intelligente” ribattei io “e abbia usato molto discernimento nella distribuzione dei suoi doni”.
    La Pasionaria espose allora l’intenzione di gettare le rotaie in un luogo innominabile: venne in altri termini a dire che lei ci faceva la birra con le rotaie. Rinunciò al suo divisamento, infine, ma non si riconciliò con la Befana.
    Albertino in un primo tempo parve soddisfatto dei vagoni e della locomotiva; poi concluse che senza le rotaie non è più un treno ed entrò anche lui in agitazione.
    “E io allora cosa dovrei dire?” esclamai “io che ho avuto soltanto la stazione e il quadro comando? Cos’è una stazione senza strada ferrata e senza convogli ferroviari?”
    “Te taci macaco” esclamò la Pasionaria “Baffi di latta”.”
    Cosa puo’ fare un padre che si sente chiamare “baffi di latta” da una figlia di quattro anni? Non puo’ che entrare in agitazione. E appunto entrai in agitazione anch’io.
    Margherita trasse le conclusioni.
    “E’ stata un’idea molto brillante, se non sbaglio”.
    “Brillantissima” risposi io “fino a questo momento l’egoismo personale predomina e preclude agli individui ogni possibilità di ragionamento. Ma, in un secondo tempo, tu vedrai il ragionamento farsi strada e superare l’egoismo. Trovandosi i due individui a possedere ciascuno uno soltanto dei tre elementi che costituiscono un unico sistema (la ferrovia), arriveranno col ragionamento a comprendere la necessità di trovare un accordo che permetta una cooperazione. Sarà un interessantissimo esperimento, Margherita.”
    Poco tempo dopo venne a trovarmi nel mio studio l’individua.
    “Se mi dai la stazione” disse “ti do un soldo lungo rosso”. Il soldo lungo rosso per la Pasionaria è un biglietto da diecimila.
    “E dove lo prendi il soldo lungo rosso?” le chiesi.
    “L’ho già preso. Se mi dai la stazione ti do un soldo lungo rosso, con l’omino magro davanti e i quattro pancioni dietro”
    “Dove lo hai preso?” “Affari miei” disse la Pasionaria.
    Rifiutai decisamente. Evidentemente la individua bluffava. Tentava il bidone. Pur ammettendo che praticasse il piccolo commercio con le bambine della casa, era impossibile che la Pasionaria possedesse diecimila lire.
    Uscì la Pasionaria e poi entrò Albertino.
    “Se mi fai giocare un po’ con la stazione” disse Albertino “ti dico dove la Carlotta ha nascosto il biglietto rosso da diecimila lire che ti ha portato via dal portafogli”.
    Effettivamente nel portafogli mancava il biglietto da diecimila e il fatto era grave.
    “Stiamo nella seconda fase” spiegai a Margherita “l’egoismo personale è ancora vivo, ma già il ragionamento lavora. Gli individui hanno capito che un elemento solo non basta, ma bisogna conquistare gli altri due. Quindi ragionano, sì, ma egoisticamente e ognuno d’essi cerca di conquistare gli altri due pezzi per impadronirsi del sistema intero. Margherita cosa rappresento io?”
    “Lo stupido” rispose serenamente Margherita.
    “No Margherita io qui rappresento il capitale. Il capitale che il proletariato (la Pasionaria) tenta di ricattare. E Albertino è il ceto medio che, pur di avere un piccolo vantaggio di natura morale, fa causa comune col capitale e si schiera contro il proletariato. Qui la chiave di tutto sta nel contegno del capitale. Se il capitale (io) cede al ricatto del proletariato è finita: gli conviene giocare abilmente col ceto medio”. Giocai abilmente col ceto medio.
    “Bravo Albertino” ti farò giocare con la stazione. Ma tu devi aiutarmi a recuperare il biglietto da diecimila”.
    Il ceto medio partì contro il proletariato, e di lì a poco udii alte grida provenienti dalla stanza dei ragazzi. Poi si spalancò la porta ed entrò la Pasionaria.
    “Ha messo il biglietto in bocca e dice che se non gli dai la tua stazione lo mangia” gridò Albertino.
    Il proletariato era terribile a vedersi. Non poteva parlare ma nei suoi occhi c’era tutta la rivoluzione d’ottobre.
    Allora il capitale dovette cedere al ricatto. Le porsi la stazione, ma il proletariato ormai aveva iniziato la sua marcia e non la fermava certamente a mezzo. Fece capire che voleva anche i vagoni e la locomotiva di Albertino. E così io tolsi per forza la roba ad Albertino e chi ci rimise fu il ceto medio.
    Il quale entrò in agitazione, ma ebbe un pessimo trattamento sia dal capitale (io) che dall’autorità di polizia (Margherita).
    “Magnifico esperimento di cooperazione” osservò Margherita.
    “Ottimo signora mia. Abbiamo avuto l’esperimento rivoluzionario. Vediamo come se la cava il proletariato, ora che è padrone del sistema”.
    Il proletariato si sedette sotto la tavola di cucina e cominciò a lavorare per montare la ferrovia; ma dopo mezz’ora dovette chiedere l’ausilio del ceto medio.
    Intervenne Albertino che riuscì a montare perfettamente tutta la ferrovia.
    “Ah ah” ghignò la Pasionaria quando mi affacciai in cucina.
    “Bene bene” dissi io “Adesso vediamo come funziona”
    Il ceto medio, esperto della tecnica, infilò nella presa di corrente la spina. Poi fece scattare gli interruttori del quadro dei comandi. E il treno non si mosse.
    “Ah ah” ghignai io che avevo svitato la valvola sotto il contatore.
    Ci fu una ribellione violenta del proletariato che cercò di prendermi a calci negli stinchi. Ma poi dovette venire ad un accordo: e io riebbi così la mia stazione. Allora riavvitai la valvola e il convoglio si mosse.
    “Figlioli miei” allora spiegai, nella vita la cosa più necessaria è la cooperazione. Ognuno deve dare quello che puo’ dare e non pretendere di avere tutto lui. Come vedete, perché il treno cammini occorre che tutti e tre noi ci troviamo d’accordo”
    Margherita sospirò.
    “Il che dimostra che il proletariato ha ragione quando chiede la nazionalizzazione dell’industria elettrica” disse. “Esso infatti è alla mercè tua, o signor capitale Giovannino, che controlli le valvole del contatore”.
    “Non svisiamo la questione” risposi “Lasciamo alla cosa il suo carattere di esperimento di cooperazione”.
    La sera accadde che dovemmo accendere le candele perché una ignota mano assassina, attaccata la spina del ferro da stiro, aveva messo lo stesso ferro da stiro dentro la pentola del brodo. Brodo che fortemente salato, aveva combinato un corto circuito con annessa fusione di tutte le valvole.
    “E’ il proletariato che si ribella” osservò Margherita.
    E La Pasionaria mi guardò bieca e sarcastica.

    Edited by Ritavi - 29/1/2010, 23:26
     
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    di G. Guareschi



    da lo "Zibaldino"





    Oggi, approfittando di un momento di calma, ho potuto constatare, a ventisei giorni di distanza, che il dottore aveva ragione.
    Il che vuol dire che io, ventisei giorni fa, ho pensato che occorreva fare qualcosa per sistemare la parte interna della mia sommità, e ho bussato alla porta di un medico.
    Ho avuto la fortuna di trovarmi davanti a una persona di età rispettabile e di aspetto dignitosissimo..
    L’illustre sanitario mi ha guardato interrogativamente e io ho cercato di spiegare la ragione che mi aveva spinto a ricorrere ai suoi consigli:
    “Verso le diciassette di ogni giorno, un dannato martelletto comincia a picchiare sulla parte centrale del mio cervello e continua fino a sera”
    L’egregio personaggio ha aggrottato le sopracciglia:
    “Un martelletto in che senso?” mi ha chiesto.
    “Dall’alto in basso” ho creduto bene di precisare.
    Il dottore ha scosso il capo, sorridendo.
    “Non ci comprendiamo: desideravo sapere che cosa intendete voi per martelletto”.
    Mi ha stupito il fatto che un uomo di cultura più che comune avesse dei dubbi su una cosa banale quale un martello, ad ogni modo ho cercato di definire la faccenda con la maggior precisione possibile.
    “Per martelletto intendo una piccola massa di acciaio a forma di parallelepipedo infilato in cima ad un manico, impugnando il quale si possono menare colpi per conficcare chiodi o rompere un termometro”.
    Il degno scienziato ha allargato le braccia.
    “Benedetto uomo!” ha commentato, avendo nella voce una leggera punta di impazienza. “Qui noi stiamo parlando linguaggi diversi. Vogliate dirmi in parole povere che cosa avete!”.
    “Mi fa male la testa!” ho risposto io. E l’egregio professore ha affermato che finalmente si poteva cominciare a ragionare. Mi ha chiesto quindi di qual genere fosse il dolore che accusavo, quando lo accusassi, se si trattasse di malessere continuo o intermittente. Alla fine ha ricapitolato: “Se ho bene inteso, in parole povere, voi ogni giorno avvertite nella parte centrale del vostro cervello come un dannato martelletto che comincia a picchiar colpi alle diciassette e continua fino a sera?” “Questo volevate dire?”
    Ho risposto di sì.
    L’eccellente uomo mi ha provato il polso, il cuore, i polmoni, poi mi ha considerato attentamente.
    “Fumo?” ha chiesto.
    “No” ho risposto.
    “Vino?”
    “No”
    “Alcoolici?”
    “No”
    Il dottore mi ha guardato severo negli occhi. “Mai?” ha insistito con voce cortese, ma decisa. E io sono rimasto un po’ imbarazzato, ai dottori bisogna dire tutta la verità.
    “Ecco” ho confessato. “Ho bevuto un bicchierino di fernet il mese scorso”
    Il valente sanitario mi ha guardato più fissamente negli occhi.
    “Donne?”
    “Moglie” ho sussurrato arrossendo. E questa risposta ha provocato in lui un gesto di impazienza.
    “ho detto – donne-!” ha esclamato il medico. Ma io, ormai, ero sulla cattiva strada.
    “Per l’appunto mia moglie è una donna”.
    L’egregio sanitario ha riso, ma si capiva che era seccato. “Dicendo donne intendevo dire – altre donne” ha precisato sbuffando “nel senso di divertimento”.
    Sono diventato rosso.
    “Ecco” ho confessato, “per essere sinceri nel 1932 una certa ragazza bionda…”
    L’illustre uomo mi ha pregato di non continuare, poi ha ripreso l’interrogatorio.
    “state alzato la notte?”
    “No”
    “Fate lavoro cerebrale?”
    “No, scrivo per i giornali”
    “Carne? Intingoli?”
    “No – tessera annonaria”
    Il dottore, dopo un istante di silenzio, si è fatto più discreto.
    “Droghe allora?” ha chiesto a bassa voce.
    “No, Niente pepe e solo un po’ di noce moscata”
    “Non mi sono spiegato” ha insistito il sanitario “intendevo droghe nel senso di stupefacenti, eccitanti, eccetera”.
    “Qualche compressa di aspirina ogni tanto” ho ammesso.
    “Caffè?”
    Ho allargato le braccia, sorridendo.
    “non vuol dire” ha esclamato il dottore “uno puo’ procurarsene con la borsa nera”.
    “No”
    Allora l’egregio sanitario ha perso la calma: “perbacco”, ha detto con voce irritatissima “voi non prendete caffè, non prendete droghe, non fate tardi la notte, non eseguite lavori cerebrali, non avete donne, non bevete, non fumate, si puo’ sapere che cosa un povero dottore puo’ proibirvi?”
    Era nobilmente indignato, e io sono uscito a testa bassa.
    Arrivato sulla porta, mi sono ricordato di qualcosa e sono tornato indietro.
    “Scusate dottore” io veramente non fumo, non bevo eccetera però ho il vizio del pippermint”
    “Il vizio del pippermint? E che sarebbe?” ha chiesto il dottore, aggrottando le sopracciglia.
    “Ecco, ogni giorno io mangio due caramelle bianche di menta, dette appunto pippermint.”.
    “Bene!” ha esclamato soddisfatto il dottore “Se volete guarire, niente più pippermint”.
    Oggi dunque, a ventisei giorni di distanza, debbo riconoscere che il dottore aveva ragione. Abolite le due caramelle quotidiane il mio dolore di capo è scomparso. E sono molto soddisfatto perché me la sono cavata col solo sacrificio di due mentine. Se avessi risposto di sì alle domande del dottore, io oggi non potrei più fumare, non potrei più bere vini e liquori, non potrei più fare tardi la notte, eccetera, come ho sempre fatto e come ancora sto facendo e spero di fare.
    I dottori per guarirvi hanno bisogno di poco: pur che vi possano proibire qualcosa tutto va a posto. L’astuzia sta nel farsi proibire solo le cose cui si tiene di meno.
    Il che è bello e istruttivo.

     
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  7. B.B.8
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    Ecco, questo non lo dovevi postare, Rita.

    Conforti, leggendo il racconto di Guareschi, rafforza la sua idea.

    Poi, fra 10 anni si beccherà un'altra dolorosissima colica renale...
     
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    CITAZIONE (B.B.8 @ 6/2/2010, 21:57)
    Ecco, questo non lo dovevi postare, Rita.

    Conforti, leggendo il racconto di Guareschi, rafforza la sua idea.

    Poi, fra 10 anni si beccherà un'altra dolorosissima colica renale...

    mah :unsure: l'ideale sta nel mezzo... indubbiamente se quello è ... pure i medici gli consiglieranno di non mangiare più la pizza schif.
    Se resiste 10 anni a non mangiarla siamo a cavallo.

    Peraltro, ogni tanto pure gli stessi medici si lasciano scappare queste battute :rolleyes: : la gastroenterologa di my mother quando gli ha chiesto anamnesi dei parenti e ascendenti e mia madre le ha detto: mio padre è morto giovane di polmonite e mia madre a 90 anni e non è mai andata da un medico.. si è sentita di rispondere "e forse è per quello che è arrivata fino a 90 anni -_- "


    Conforts, non leggere quest'ultima :B): autodeterminati ad andare dal medico nei casi gravi e sospetti (cioè quelli in cui tu non sospetti).
     
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  9. B.B.8
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    CITAZIONE (Ritavi @ 7/2/2010, 13:48)
    CITAZIONE (B.B.8 @ 6/2/2010, 21:57)
    Ecco, questo non lo dovevi postare, Rita.

    Conforti, leggendo il racconto di Guareschi, rafforza la sua idea.

    Poi, fra 10 anni si beccherà un'altra dolorosissima colica renale...

    mah :unsure: l'ideale sta nel mezzo... indubbiamente se quello è ... pure i medici gli consiglieranno di non mangiare più la pizza schif.
    Se resiste 10 anni a non mangiarla siamo a cavallo.

    Peraltro, ogni tanto pure gli stessi medici si lasciano scappare queste battute :rolleyes: : la gastroenterologa di my mother quando gli ha chiesto anamnesi dei parenti e ascendenti e mia madre le ha detto: mio padre è morto giovane di polmonite e mia madre a 90 anni e non è mai andata da un medico.. si è sentita di rispondere "e forse è per quello che è arrivata fino a 90 anni -_- "


    Conforts, non leggere quest'ultima :B): autodeterminati ad andare dal medico nei casi gravi e sospetti (cioè quelli in cui tu non sospetti).

    Solo ora mi rendo conto che non c'era nessuna faccina ironica sul mio post.
    Non era mia intenzione fare la seria. :materazzi:

    Concordo con quanto dici; lo studio della medicina è ancora mooooolto giovane. A volte sembra si vada a tentativi... :unsure:
     
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  10. TullioConforti
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    non e' lo studio della medicina il problema, ma l'intelligenza di chi la applica.

    Essa e' mediamente molto mediocre e la probabilita' che una diagnosi sia azzeccata alla prima visita e' direttamente proporzionale alla quantita' di grigio vivo nella massa cerebrale complessiva della classe medica. Il che e' molto poco.

     
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    CITAZIONE (TullioConforti @ 7/2/2010, 16:07)
    non e' lo studio della medicina il problema, ma l'intelligenza di chi la applica.

    Essa e' mediamente molto mediocre e la probabilita' che una diagnosi sia azzeccata alla prima visita e' direttamente proporzionale alla quantita' di grigio vivo nella massa cerebrale complessiva della classe medica. Il che e' molto poco.

    ho capito e concordo, ma tu vacci due o tre volte e fai la media -_-

    @Bibs, ke la mia sembrava una risposta seria?
    comunque poco importa, sarà un po' come la storia della relazione... da faceta puo' diventare seria e invece la si puo' pensare seria ma far ridere i polli -_-
     
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40 replies since 10/5/2008, 17:17   2009 views
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