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    Lichtenstein .. o San Marino, che anche loro hanno il rappresentante all'ONU

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    Toni – G. Guareschi – Candido 1948

    Erano in due, Toni e il Biondo e camminavano curvi sotto il peso della sacca e pareva che tutto dovesse funzionare bene.
    Ritornavano carichi di merce, tabacco per lo più, e ogni tanto si fermavano ad annusare l’aria perché era gente che sentiva odor di doganiere lontano un miglio. Ma la notte era sempre fredda e silenziosa.
    Ad un tratto si levò il vento che fece un po’ di ramazza in cielo e apparve la luna.
    “Proprio adesso che dobbiamo passare allo scoperto” borbottò Toni.
    “Ci conviene aspettare che rimetta dentro il muso” rispose il Biondo – “non mi va di farmi agganciare proprio ora che siamo vicini alla base.
    Si misero a sedere all’ombra di un grosso macigno, allo sbocco del canalone, ma il cielo diventava sempre più schifosamente pulito e dopo un po’ Toni si levò.
    Quando un nuvolone nero tirò la tenda davanti alla luna, Toni disse: “Io mi sgancio!” e partì a tutta birra. Passato lui sarebbe passato il Biondo. Ma, arrivato a metà del praticello pelato, ecco una stramaledetta faccenda: Toni pesta una zampata malamente e finisce appiccicato per terra come una buccia di fico. E ci mette il suo tempo per ritornare in batteria così someggiato com’è, e succede c he appena è in piedi la luna si riaffaccia e una voce gli grida l’altolà.
    Continuare e buttarsi verso la valletta che porta al paese è come dare il proprio indirizzo, con nome, cognome e anche il numero di casa. Meglio fare marcia indietro, riprendere la via del canalone.
    “Altolà” ripete la voce e Toni borbotta: “Crepa” e schizza verso i primi macigni del canalone.
    Ci sono momenti in cui uno è tanto su di giri che non ha neanche il tempo di accorgersi di essere morto, magari: i doganieri, che erano due, vista scapparsi la selvaggina, spedirono dietro a Toni tre o quattro schioppettate, ma Toni non si accorse nemmeno del botto che facevano i colpi.
    “Sei ferito” gli domandò il Biondo appena si vide davanti il compagno.
    “Non lo so, ho altro da pensare adesso,” ansimò Toni – “Non ti hanno visto quindi possiamo filare assieme. Se arriviamo a svoltare la Scoffetta, non ci prende neanche il ministro della Guerra!”
    Presero a saettare tra i macigni del canalone e arrivarono al sentiero della Scoffetta, che era stretto e correva sul fianco della montagna e sotto c’era il precipizio.
    Oramai erano al sicuro, ma Toni non arrivò neppure a dire: “gliel’abbiamo fatta a quei sacchi di letame!”: improvvisamente dovette accorgersi che una palla dei doganieri l’aveva azzeccato ad una gamba perché gli mancarono di botto le forze e precipitò giù per la scarpata.
    Il Biondo che camminava dietro a lui non fece neanche a tempo ad allungare una mano per trattenerlo.

    (CONTINUA)



    Toni (2)

    Il parroco era già a letto da un pezzo, quando qualcuno sbatacchiò una pertica contro la finestra della sua camera e dovette saltare giù.
    Si affacciò e riconobbe il Biondo.
    “Che accidenti vuoi a quest’ora?” domandò seccato.
    “Venite giù e vestitevi tutto perché bisogna partire subito.
    Il parroco, poco dopo, venne ad aprire e domandò cosa stesse succedendo.
    In quel momento apparve una ragazza con uno scialle nero in testa e si infilò in canonica.
    Il parroco spalancò gli occhi.
    “Si può sapere che porcheria mi state combinando? Cosa fai tu, all’una di notte, fuori di casa?”
    La ragazza si nascose la faccia tra le mani e il Biondo chiuse la porta.
    “E’ la Mariola del Groppi” spiegò il Bin”E’ la fidanzata di Toni”.
    “Lo so” ribattè aspro il parroco – “E cosa fa fuori a quest’ora?”.
    Il Biondo si buttò a sedere su una panca.
    “I doganieri ci hanno pizzicato all’uscita del canalone” disse “Toni ha ricevuto una palla in una gamba. Sul sentiero della Scoffetta gli sono mancate le forze ed è piombato giù. Bisogna che veniate con me a portargli la ragazza.
    Il parroco perdette l’indirizzo di casa.
    “Pezzo di cretino, bisogna portargli delle corde e della gente che lo tiri su, altro che ragazze!”
    “Reverendo” rispose a bassa voce il Biondo – bisogna portargli la ragazza. Le corde non servono più. Toni è rotolato giù e si è andato a infilare in uno spuntone, come agganciato a un rampino.
    La ragazza prese a singhiozzare in un angolo.
    “Sono già sceso io” continuò il Biondo – E’ un mucchio di carne straccia, se uno lo tocca gli resta un pezzo in mano .. Non si puo’ muoverlo di un millimetro. Bisogna far presto, portargli la ragazza. “Portami la Mariola” mi ha detto “Portamela che voglio partire di qui con la coscienza tranquilla … Portami anche l’arciprete. Se non riesco a sposarla muoio arrabbiato come un cane. Non voglio lasciare una ragazza disonorata”.
    Il parroco si passò la mano sulla fronte e guardò la ragazza. Voleva dire chi sa che cosa poi si vergognò come un ladro.
    “Via” disse “e chiamiamo qualcuno.
    “Nessuno bisogna chiamare” esclamò il Biondo – Diventerebbe una porca cosa, con finanzieri che prendono nome e cognome … Lo troveranno domani. La gente saprà solo che è morto per disgrazia. Bisogna avere dei riguardi per il figlio che verrà”.
    Il parroco fece di sì macchinalmente.
    Partirono nella notte, passarono per i sentieri più pericolosi: era un’impresa infernale, ma sarebbero arrivati tutt’e tre anche a dover azzannare la roccia coi denti.
    Arrivarono a svoltare il roccione della Scoffetta e il Biondo ebbe un grugnito.
    La luna batteva sul sentiero e si vedevano avanzare, l’uno dietro l’altro, due doganieri.
    “Sono ancora loro, quei cani” disse il Biondo – “quanto è vero Iddio li ammazzo”.
    “Tu fila via e torna a casa – disse il prete – Torna a casa subito. Voi venite con me ragazza. Dov’è?”
    “Là in corrispondenza del cespuglio” sussurrò il Biondo.
    “via, via” ordinò aspro il prete.
    E svoltò l’angolo e avanzò lungo il sentiero, tutto nero ed enorme sotto la luna e, dietro, c’era l’ombra della ragazza.
    “Altolà” disse uno dei doganieri, imbracciando il moschetto.
    Lo riconobbero e abbassarono le armi appressandosi.
    “Dove andate reverendo?”
    “Qui” rispose fermandosi presso il cespuglio in riva al sentiero.
    Si affacciò e guardò giù, lungo il pendio sul quale batteva la luna, e vide, sotto. Il mucchio di stracci agganciato allo spuntone.
    “Toni!” urlò con voce tonante il prete.
    “Toni!” singhiozzò la ragazza inginocchiata sull’abisso.
    Salì dalla voragine una voce carica di dolore: “Presto, presto!”
    Il prete buttò via il berrettaccio e alzato il viso al cielo, mormorò una preghiera.
    Poi si volse e i due doganieri stavano allocchiti, appiccicati alla roccia.
    “Avanti i testimoni” ordinò il prete.
    E i due doganieri avanzarono.
    Si udì nel silenzio la voce possente del prete:
    “Vuoi tu Maria del Groppi prendere come marito il qui presente Antonio Oran?”
    “Sì” urlò singhiozzando la ragazza inginocchiata in riva al baratro.
    “E tu Antonio Oran, vuoi prendere come moglie la qui presente Maria del Groppi?”
    Il prete aveva urlato queste parole e la voce riempì di fremiti l’abisso. Poi ritornò il silenzio e anche il vento si era fermato e anche le nuvole avevano smesso di navigare nel cielo.
    Salì dall’abisso un gemito: “Sì..”
    Poi le parole rituali del prete, indi ancora silenzio: poi l’urlo disperato della ragazza: “Toni!”.
    L’abisso rimase muto.
    I due doganieri immobili, col berretto in mano, parevano di pietra. Il graduato si riscosse, sciolse la corda che aveva a tracolla, ne agganciò un capo a uno spuntone e calò nell’abisso. Rimase giù una ventina di minuti, poi riaffiorò sul sentiero.
    Non disse niente, si limitò a scuotere il capo. Finito.
    Si chinò e tirò su lentamente la fune, e in fondo, era legata la sacca di Toni.
    Sciolse il nodo e delicatamente mise davanti alla ragazza ancora inginocchiata la sacca. La ragazza guardò la sacca, la toccò leggermente, e la sacca era macchiata del sangue di Toni.
    Sciolse lentamente il legaccio e, a uno a uno, trasse i pacchi di tabacco e li gettò in una crepa profonda. Quando la sacca fu vuota la ripiegò con cura e la nascose sotto lo scialle. Poi si alzò e guardò il doganiere.
    “Servirà per suo figlio” disse. E la sua voce era fredda e il suo viso pareva di ghiaccio. Si volse, e si allontanò lentamente.
    Il graduato stette a guardarla, mentre si asciugava la fronte piena di sudore.
    “E’ un mondo maledetto” disse alla fine allargando le braccia.
    “E’ un mondo maledetto” ripetè scuotendo il capo il prete.
    I doganieri disparvero e il prete si sedette in riva all’abisso a parlare con Toni

     
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    STORIA DI UNO - Camorra – Candido 1948 – G. Guareschi

    Un pomeriggio di novembre Giacomo si trovava seduto in una panchina del parco, proprio dove il vialone centrale si congiungeva col viale che girava tutt’attorno al laghetto. E il parco era deserto e deserta era l’acqua verde del laghetto che, d’estate, era piena di barche cariche di ragazzini e di innamorati.
    A un bel momento Giacomo vide comparire, in fondo al vialone, un uomo che camminava tenendo per mano il manubrio di una bicicletta da corsa. Arrivato a metà del vialone l’uomo saltò sul biacociclo e partì a tutta birra.
    Giacomo pensò: “Se, arrivato qui, volta a destra, domani sarà una buona giornata per me, se volta a sinistra sarà cattiva”. Ma il ciclista non voltò né a destra né a sinistra: tirò diritto e, dopo un discreto volo, scomparve nell’acqua del laghetto assieme alla bicicletta.
    “Questo non l’avevo previsto” pensò Giacomo. “Bisogna tener presente che nella vita i casi sembrano sempre due, ma quasi sempre sono tre”.
    Poi, siccome il ciclista non accennava a ricomparire, Giacomo si buttò nell’acqua e andò a ripescarlo. Riuscì a tirarlo a galla, ma poi si ricordò di tutta la sua fame arretrata e così gli venne una tal debolezza che si sentì mancare le forze. Fortunatamente proprio in quel momento, l’altro riprese conoscenza e così riuscì ad agguantare in tempo Giacomo e a portarlo a riva.
    Si ritrovarono tremanti dal freddo davanti a un fuoco acceso tra le macerie di un gran palazzone vicino al parco.
    Il ciclista era arrabbiatissimo.
    “Una volta tanto che riesco a trovare il coraggio di ammazzarmi ecco che un cretino mi viene a cavar fuori dall’acqua. Si puo’ sapere che diritto hai di impicciarti dei fatti miei?
    “Scusami” rispose Giacomo “io non sapevo che tu volevi affogarti. Io vedo uno vestito e in bicicletta che va a finire dentro l’acqua e mica posso pensare che quello voglia affogarsi. Io penso a una disgrazia. Ad ogni modo, adesso che lo so, se vuoi affogarti, fai pure.
    “Mica tutti i momenti sono buoni per fare queste cose” borbottò l’altro, “Sono ispirazioni che vengono quando vogliono loro. Adesso chi sa quanto tempo dovrò ancora aspettare prima che l’ispirazione mi venga di nuovo. Forse mesi, forse anni. E poi non ho più la bicicletta. Senza bicicletta ho provato un sacco di volte:arrivato in riva all’acqua mi fermavo e non riuscivo più ad andare avanti. Invece con la bicicletta, una volta lanciati, la forza di inerzia frega l’istinto di conservazione e tu finisci dentro l’acqua.
    “Si puo’ ripescare la bicicletta: basta prendere quella pertica e legarci un rampino di ferro. L’acqua nel laghetto è profonda non più di tre metri.
    Il giovanotto scosse il capo.
    “Non voglio grane: la bicicletta non è mia. L’ho trovata appoggiata al muro poco lontano di qui.”
    “Puoi sempre buttarti sotto il treno” obiettò Giacomo.
    “No il sangue mi fa senso. L’unica è l’acqua. Ma bisogna aspettare tranquilli che venga ancora l’ispirazione. Io mi chiamo Camorra. E tu?”
    “Giacomo”.
    “Cosa fai?”
    “Disoccupato”
    “Anch’io. Potremmo fare società”.
    Diventarono amici e si vedevano quasi tutti i giorni e si trovavano sempre d’accordo perché, di solito, Camorra parlava e Giacomo diceva di sì.
    Ogni tanto però Camorra imprecava alla guerra e si faceva cupo e non parlava più. Allora Giacomo si limitava a tacere in compagnia di Camorra.


    (CONTINUA)



    Storia di uno (2)

    Anche quella volta la cosa cominciò così, poi a un bel momento Giacomo si fece coraggio: “Potrei sapere che ti succede?
    “Non mi succede niente, adesso. E’ una roba che mi è successa tanto tempo fa, in guerra.
    “Sono successe tante cose anche a me quand’ero in guerra. Non bisogna pensarci.”
    Camorra buttò via la cicca.
    “Io, durante la guerra, ho ammazzato un uomo” disse cupo.
    Giacomo allargò le braccia.
    “Chiunque partecipa a una guerra, anche se si limita a fare lo scritturale in un ufficio o sta a casa a fabbricare spolette o gavette o farsetti a maglia per i soldati, ammazza della gente.”
    “L’ho ammazzato per conto di guerra, però non per conto della nazione, ma per conto mio. L’ho ammazzato io e quindi ce l’ho sulla mia coscienza personale.”
    “E’ un pasticcio” sussurrò Giacomo.
    “Non è un pasticcio” rispose Camorra “Io ero scappato in montagna per via che non volevo più combattere per conto di nessuno: lassù trovai degli altri ragazzi e così, sentendo raccontare poi dei fatti che mi facevano drizzare i capelli, domandai un mitra anche per me e me lo diedero e lo adoperai. Andò avanti per un bel pezzo, poi un giorno, scendemmo al piano in sei per buttare all’aria un ponte: invece qualcuno soffiò sul riso e così i tedeschi ci accalappiarono caldi caldi. Tu sai come facevano i tedeschi?”
    “No” rispose Giacomo “io so come facevano gli inglesi”.
    “Non importa, i tedeschi facevano così: ti appiccicavano contro un muro a raffiche di mitra. Così ci portarono tutt’e sei dentro l’aia di una fattoria, ci misero contro il muro e ci fecero fuori tutt’e sei.”
    Giacomo guardò perplesso Camorra.
    “Tutti e sei?”
    “Abbi pazienza: i tedeschi ci misero contro il muro e mentre partiva dal mitra puntato contro di me la prima raffica, il Padreterno mi mise una mano in testa e mi buttò a terra, in mezzo al fango, e sopra di me era il corpo di uno dei miei cinque disgraziati compagni. Ero vivo. Capisci cosa significa essere vivi?”
    “Capisco”
    “Ero svenuto nel momento più giusto. Il sangue di chi mi cadde addosso mi imbrattò la faccia ed il corpo. I tedeschi finirono con una pistolettata quelli che davano ancora segno di vita e, siccome io ero svenuto ed immobile come un sasso, mi credettero già morto e risparmiarono il colpo. Quando rinvenni pioveva forte ed era notte nera come il carbone. Mi levai in piedi: mi tastai ed ero illeso. Allora andai a lavarmi la faccia alla fontana che stava a due passi. Da una finestra della fattoria filtrava un po’ di luce. Andai a bussare alla porta e mi venne ad aprire un vecchio.”
    “Cosa volete” domandò sospettoso.
    “Bisogna che mi aiutiate. Sono sporco, stracciato, infangato e bagnato fino all’osso. Datemi un vestito qualsiasi. Se mi vedono così mi pescano subito”
    “Chi siete?” “Sono uno dei sei là fuori”
    Il vecchio sbarrò gli occhi.
    “Uno dei sei là fuori?” “E’ un miracolo: mi hanno creduto morto ed ero soltanto svenuto. Datemi qualcosa da mangiare, intanto”-
    Il vecchio stette a guardarmi, poi scosse il capo..
    “Non è possibile” borbottò. Poi accese un lanternino a olio e uscì nell’aia. Volle che andassi con lui e io lo seguii fin davanti al muro ai piedi del quale erano gli altri cinque. “Io stavo lì” spiegai. “Disteso sotto Gian”.
    Spense il lanternino e rientrammo.
    “Datemi qualcosa da mangiare” dissi. “Se non sono morto di mitra e se non son morto di paura non è giusto che muoia di fame”.
    “Andò a frugare dentro una credenza e mi portò del pane, del salame, del formaggio e del vino. Poi stette davanti a me in piedi a vedermi mangiare. Quando ebbi mangiato tutto, mi sentii più tranquillo.
    “Adesso datemi per favore un vestito e io filo via subito. Se mi dovessero trovare qui sarebbe un guaio per voi”.
    Il vecchio si allontanò e io mi misi in un angolo e cominciai a togliermi di dosso i miei stracci. Quando sentii il suo passo avvicinarsi mi volsi e mi trovai spalancato davanti al petto uno schioppo.
    “Rimettetevi i vostri vestiti” disse cupo il vecchio.
    “Rimasi a bocca aperta come un cretino”
    “Appena finita la fucilazione, il capitano tedesco mi ha portato davanti ai morti e mi ha detto: rimarranno qui finchè vorremo noi perché la gente deve vedere e imparare a stare al mondo. Sono sei e sei debbono restare: ne rispondete voi con la vostra vita e con quella dei vostri di casa” Questa gente non scherza. Se domani ne trova cinque invece di sei, ci accoppa tutti e brucia la casa. Sei erano e sei devono rimanere”.
    Io gli risposi che era un ragionamento da pazzi scatenati, ma egli mise la mano sul grilletto delle schioppo e io tacqui.
    “Sei erano e sei debbono rimanere: io sono l’unico uomo della casa e sono vecchio e invalido; gli altri sono donne o ragazzini. Per scampare alla rappresaglia dovremmo scappare tutti adesso. Come scappiamo? Dove scappiamo? Sei erano e sei devono rimanere: non c’è via di scampo con quei maledetti”
    Era una cosa da far perdere la ragione.
    “Ma cosa volete fare?” gridai “Volete forse tradirmi consegnandomi ai tedeschi?”
    “Io non tradisco nessuno” rispose l’uomo “Io voglio salvare i figli e le donne dei miei figli, la loro casa. Sarei un traditore se vi lasciassi scappare, perché per salvare voi perderei tutti quegli innocenti”.
    Cercai di guadagnare tempo: presi a rivestirmi lentamente.
    “Lasciatemi almeno una probabilità di salvarmi” dissi “Andrò a rimettermi al posto e fingerò di essere morto. Se mi seppelliranno voi verrete a disseppellirmi”.na
    “No: fareste il morto una mezz’ora per mettermi tranquillo e poi scappereste”
    Il vecchio imbracciò il fucile e me lo puntò al petto, a una spanna dal cuore.
    La canna tremava.
    “Che Dio mi perdoni” disse mettendo il dito sul grilletto.
    “Se siete cristiano lasciatemi almeno il tempo di pentirmi dei miei peccati” gridai “Non fatemi morire come un cane”
    Il vecchio abbassò di un palmo la canna. Io giunsi le mani e pregai davvero Dio “Dammi la forza di agguantare la canna di questo maledetto schioppo e di fare un salto di fianco” dissi a Dio e mi aiutò. Fu questione di un attimo: agguantai la canna e la spinsi di lato. Poi successe non so che cosa: il fatto è che il vecchio rimase disarmato ma mi si avvinghiò addosso disperatamente. Poi accadde che per impedirgli di mettersi a urlare gli spaccai la testa con la bottiglia che stava sulla tavola.
    Camorra si asciugò il sudore.
    “Morì senza un grido. Allora io presi la porta, ma poi mi venne in mente quello che diceva il vecchio: “Sei erano e sei devono rimanere”. Gli misi i miei stracci e io presi i suoi. Lo portai sotto il muro, gli imbrattai la faccia di fango e lo misi al posto dov’ero io. Poi andai a nascondermi dentro il fienile. La mattina dopo arrivarono i tedeschi, videro che i morti erano sei e li buttarono dentro una fossa. Durante la notte tagliai la corda e nessuno mi vide mai più, né amici né nemici. Io risulto morto fucilato, nessuno mi cerca, nessuno mi secca. Ma ogni tanto mi ricordo che ho ammazzato un uomo.
    “Ma è la guerra” protestò Giacomo.
    “Quello non l’ha ammazzato la guerra, quello l’ho ammazzato io” affermò Camorra “ma un giorno troverò bene un’altra bicicletta”.



    (FINE)
     
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  3. B.B.8
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    Sul molo di un piccolo villaggio messicano, un turista americano si ferma e si avvicina ad una piccola imbarcazione di un pescatore del posto.

    Si complimenta con il pescatore per la qualità del pesce e gli chiede quanto tempo avesse impiegato per pescarlo. Pescatore: 'Non ho impiegato molto' Turista: 'Ma allora, perchè non è stato di più, per pescare di più?' Il messicano gli spiega che quella esigua quantità era esattamente ciò di cui aveva bisogno per soddisfare le esigenze della sua famiglia.

    Turista: 'Ma come impiega il resto del suo tempo?' Pescatore: 'Dormo fino a tardi, pesco un po', gioco con i miei bimbi e faccio la siesta con mia moglie. La sera vado al villaggio, ritrovo gli amici, beviamo insieme qualcosa, suono la chitarra, canto qualche canzone, e via così.'

    Turista: 'La interrompo subito, sa sono laureato ad Harvard, e posso darle utili suggerimenti su come migliorare. Prima di tutto lei dovrebbe pescare più a lungo, ogni giorno di più. Così logicamente pescherebbe di più. Il pesce in più lo potrebbe vendere e comprarsi una barca più grossa. Barca più grossa significa più pesce, più pesce significa più soldi, più soldi più barche! Potrà permettersi un'intera flotta!

    Quindi invece di vendere il pesce all'uomo medio, potrà negoziare direttamente con le industrie della lavorazione del pesce, potrà a suo tempo aprirsene una Sua. In seguito potrà lasciare il villaggio e trasferirsi a Mexico City o a Los Angeles o magari addirittura a New York! Da lì potrà dirigere un'enorme impresa!
    Pescatore: 'Ma per raggiungere questi obiettivi quanto tempo mi ci vorrebbe?'
    Turista: '20, 25 anni forse'

    Pescatore: '....e dopo?'

    Turista: 'Ah dopo, e qui viene il bello, quando il suoi affari avranno raggiunto volumi grandiosi, potrà vendere le azioni e guadagnare miliardi!
    Pescatore: 'miliardi? e poi?'
    Turista: 'Eppoi finalmente potrà ritirarsi dagli affari, e concedersi di vivere in un piccolo villaggio vicino alla costa, dormire fino a tardi, giocare con i suoi bimbi, andare a pescare, riposarsi, passare le serate con gli amici bevendo e giocando in allegria!


    L'ho trovata qui:
    http://silverrose.devil.it/viewtopic.php?p=111179#111179
    ho il permesso dell'amministratore di quel forum... :P :cheer:
     
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  4. TullioConforti
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    LA CASA DEGLI ORRORI:

    -in preparazione---
     
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  5. TullioConforti
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    La selva oscura (l'ho scritta io):

    Nel mezzo del cammin di nostra vita
    mi ritrovai per una selva oscura
    ché la diritta via era smarrita.
    Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

    esta selva selvaggia e aspra e forte
    che nel pensier rinova la paura!
    Tant'è amara che poco è più morte;
    ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
    dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

    Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
    tant'era pien di sonno a quel punto
    che la verace via abbandonai.
    Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
    là dove terminava quella valle

    che m'avea di paura il cor compunto,
    guardai in alto, e vidi le sue spalle
    vestite già de' raggi del pianeta
    che mena dritto altrui per ogne calle.
    Allor fu la paura un poco queta

    che nel lago del cor m'era durata
    la notte ch'i' passai con tanta pieta.
    E come quei che con lena affannata
    uscito fuor del pelago a la riva
    si volge a l'acqua perigliosa e guata,

    così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
    si volse a retro a rimirar lo passo
    che non lasciò già mai persona viva.
    Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
    ripresi via per la piaggia diserta,

    sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
    Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
    una lonza leggera e presta molto,
    che di pel macolato era coverta;
    e non mi si partia dinanzi al volto,

    anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
    ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
    Temp'era dal principio del mattino,
    e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
    ch'eran con lui quando l'amor divino

    mosse di prima quelle cose belle;
    sì ch'a bene sperar m'era cagione
    di quella fiera a la gaetta pelle
    l'ora del tempo e la dolce stagione;
    ma non sì che paura non mi desse

    la vista che m'apparve d'un leone.
    Questi parea che contra me venisse
    con la test'alta e con rabbiosa fame,
    sì che parea che l'aere ne tremesse.
    Ed una lupa, che di tutte brame

    sembiava carca ne la sua magrezza,
    e molte genti fé già viver grame,
    questa mi porse tanto di gravezza
    con la paura ch'uscia di sua vista,
    ch'io perdei la speranza de l'altezza.

    E qual è quei che volontieri acquista,
    e giugne 'l tempo che perder lo face,
    che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista;
    tal mi fece la bestia sanza pace,
    che, venendomi 'ncontro, a poco a poco

    mi ripigneva là dove 'l sol tace.
    Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
    dinanzi a li occhi mi si fu offerto
    chi per lungo silenzio parea fioco.
    Quando vidi costui nel gran diserto,

    «Miserere di me», gridai a lui,
    «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
    Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
    e li parenti miei furon lombardi,
    mantoani per patria ambedui.

    Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
    e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
    nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
    Poeta fui, e cantai di quel giusto
    figliuol d'Anchise che venne di Troia,

    poi che 'l superbo Ilión fu combusto.
    Ma tu perché ritorni a tanta noia?
    perché non sali il dilettoso monte
    ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
    «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte

    che spandi di parlar sì largo fiume?»,
    rispuos'io lui con vergognosa fronte.
    «O de li altri poeti onore e lume
    vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
    che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

    Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
    tu se' solo colui da cu' io tolsi
    lo bello stilo che m'ha fatto onore.
    Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
    aiutami da lei, famoso saggio,

    ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
    «A te convien tenere altro viaggio»,
    rispuose poi che lagrimar mi vide,
    «se vuo' campar d'esto loco selvaggio:
    ché questa bestia, per la qual tu gride,

    non lascia altrui passar per la sua via,
    ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
    e ha natura sì malvagia e ria,
    che mai non empie la bramosa voglia,
    e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

    Molti son li animali a cui s'ammoglia,
    e più saranno ancora, infin che 'l veltro
    verrà, che la farà morir con doglia.
    Questi non ciberà terra né peltro,
    ma sapienza, amore e virtute,

    e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
    Di quella umile Italia fia salute
    per cui morì la vergine Cammilla,
    Eurialo e Turno e Niso di ferute.
    Questi la caccerà per ogne villa,

    fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
    là onde 'nvidia prima dipartilla.
    Ond'io per lo tuo me' penso e discerno
    che tu mi segui, e io sarò tua guida,
    e trarrotti di qui per loco etterno,

    ove udirai le disperate strida,
    vedrai li antichi spiriti dolenti,
    ch'a la seconda morte ciascun grida;
    e vederai color che son contenti
    nel foco, perché speran di venire

    quando che sia a le beate genti.
    A le quai poi se tu vorrai salire,
    anima fia a ciò più di me degna:
    con lei ti lascerò nel mio partire;
    ché quello imperador che là sù regna,

    perch'i' fu' ribellante a la sua legge,
    non vuol che 'n sua città per me si vegna.
    In tutte parti impera e quivi regge;
    quivi è la sua città e l'alto seggio:
    oh felice colui cu' ivi elegge!».

    E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
    per quello Dio che tu non conoscesti,
    acciò ch'io fugga questo male e peggio,
    che tu mi meni là dov'or dicesti,
    sì ch'io veggia la porta di san Pietro

    e color cui tu fai cotanto mesti».
    Allor si mosse, e io li tenni dietro.

    Edited by TullioConforti - 30/7/2008, 13:38
     
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    Evvai! un nuovo libro, in attesa del libro di Bindu e della "Casa degli Orrori" di Tullio, ne ricopio uno io ...giusto per non far morire il 3D ... :B):


    G E R D A di G. Guareschi


    Una mattina dell’ottobre del 1944 arrivò al Palazzone una squadra di soldati tedeschi. Erano in piena tenuta di guerra, con una quantità incredibile di armi addosso e li comandava un sottufficiale alto un metro e rno
    Il vecchio Rolli, investito da una raffica di parole tedesche, allargò le braccia: “Io non ho fatto niente” balbetto’. “Voi italiani non fate mai niente” – ruggì lo scatenato in un italiano molto approssimativo ma assai efficace – “Voi italiani tutti angioletti con le ali”.
    Finì ugualmente il suo discorso in tedesco ma il vecchio Rolli, pur non comprendendo una sola parola, capì ugualmente il senso dell’invettiva e si preparò al peggio.
    Il sottufficiale fece cenno al Rolli di seguirlo e si avviò decisamente verso il parco, dietro al palazzo. Qui giunto, si fermò e si guardò intorr no; poi borbottò qualcosa a due della squadra indicando la pianta più grossa: ei due, con la rotella metrica,misurarono la circonferenza del tronco a una spanna da terra e urlarono la misura al sottufficiale.
    Il guerriero prese nota su un libretto: - Nome! – intimò al Rolli.
    - Antonio Rolli – rispose il vecchio. – Non il vostro nome! Lo so. Voglio il nome dell’albero.
    - Noce d’America –
    Il sottufficiale scribacchiò qualcosa sul libretto, poi spiegò al Rolli: - Far tagliare subito l’albero e dopodomani portarlo a Torricella. Tagliarlo a venti centimetri da terra –
    Il noce americano del Rolli era una pianta secolare, stupenda. Qualcosa di fenomenale, di incredibile: e se al Rolli avessero permesso di scegliere fra l’abbattere la casa e l’abbattere il noce americano, avrebbe preferito mettere una tonnellata di dinamite sotto il palazzo.
    Il Rolli era vecchio e malandato, vedovo da anni e anno rum, e con l’unico figlio prigioniero in Germania: la faccenda del noce americano rappresentava, in fondo, una sciocchezza al confronto degli altri guai. Eppure, sentendosi ordinare di segare il noce, il Rolli strinse i pugni.
    - Ha capito bene? – domandò minaccioso il sottufficiale. – Perché dovrei tagliare quella pianta? – replicò il Rolli.
    Era una domanda stupida, perlomeno. I tedeschi si preparavano alla difesa ad oltranza a pareva che il loro piano fosse quello di difendersi a bastonate o a pancate tanta era la loro smania di accumulare riserve di legname.
    Il sottufficiale guardò ferocemente il vecchio: - Gli ordini non si discutono! Tagliare l’albero! Questo è l’ordine – urlò.
    - Va bene, - disse il vecchio Rolli – E’ facile tagliare quell’albero. Ma poi, il Grande Reich, sarà capace di rifarmente uno uguale alla fine della guerra? –
    Il sottufficiale seppellì il Rolli sotto una valanga di prosa tedesca concludendo in italiano:
    -Dopodomani, l’albero tagliato a Torricella! –
    La squadra se ne andò e il Rolli rimase nel parco a guardarsi il noce americano.

    (continua)
     
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    Gerda II parte

    Tre giorni dopo, il sottufficiale tornò al Palazzone.
    Era furibondo: - Perché lei non ha fatto tagliare l’albero? – Il Rolli, per tutta risposta, si strinse nelle spalle.
    -Dopodomani se l’albero non è tagliato io la faccio fucilare – urlò il sottufficiale.
    - Puo’ fucilarmi subito perché io non farò tagliare l’albero, - rispose tranquillo il Rolli.
    Il tedesco sghignazzò: - Vedremo se dopodomani sarà della stessa idea. –
    Ma il vecchio Rolli era testardo e non cambio’ idea. Quando, allo scadere del termine, il sottufficiale torno’, lo trovo’ seduto ai piedi del noce americano.
    Il tedesco guardò il vecchio, poi guardò il noce colossale, poi ancora guardò il vecchio. Sputò per terra in segno di profondo disprezzo: - Il Grande Reich vincerà la guerra anche senza il vostro albero – affermò.
    Se ne andò e parve non dovesse farsi più vedere ma, un mese dopo, ritornò a galla: - Il nostro comando è stato avvertito con otto lettere anonime che, mentre tutti gli altri proprietari hanno eseguito l’ordine di tagliare gli alberi, lei non lo ha eseguito. Se la cosa risulterà vera, io sarò punito dai miei superiori. –
    Il Rolli scosse il capo: - Va bene, - rispose – se le cose stanno così, oggi faro’ tagliare la pianta e domani la faro’ portare a Torricella.
    Il sottufficiale non disse niente: andò nel parco a rimirarsi il noce americano e. nell’atto di risalire sulla motocicletta, ordinò perentorio al Rolli: - Lei non tagli l’albero se prima non ha ricevuto la nostra autorizzazione -.
    Di lì a due ore era di nuovo al Palazzone assieme a un giovane ufficiale al quale, carta topografica alla mano, spiegò un sacco di cose, indicando il vecchio noce. Il giovane ufficiale, alla fine, parve convinto.
    Evidentemente lo fu, perché la settimana seguente, il sottufficiale si insediava al Palazzone assieme a una piccola squadra di soldati comunicando con voce terribile al Rolli: - Noi requisiamo il suo albero perché ci serve come osservatorio –
    Sul noce americano fu costruita difatti una piccola piattaforma alla quale si accedeva con un ingegnoso sistema di scale a pioli.
    - L’aquila tedesca ha fatto il nido sul noce americano – commentò il Rolli quando l’osservatorio cominciò a funzionare e il sottufficiale sorrise.
    Ma c’era tanta tristezza nei suoi occhi che il vecchio sentì il dovere di sussurrare: - Mi scusi -.
    Arrivò rapidamente la primavera e, con la primavera, arrivarono i giorni del pasticcio finale.
    Quando il noce americano incominciò a rimettere le foglie, il sottufficiale e la sua squadra caricarono la loro roba sul camioncino e lasciarono il Palazzone.
    L’ultimo a partire fu il sottufficiale che, lanciato il razzo, avrebbe seguito l’autocarro in motocicletta. E così avvenne: l’autocarro con la squadra, arrivato oltre il ponte sullo Stivone, si fermò e attese che il sottufficiale, rimasto di vedetta in cima al noce, desse il segnale di via libera.
    Visto che tutto in giro era tranquillo, il sottufficiale fece partire il razzo verde. Poi discese e, giunto ai piedi del noce americano, cavò di tasca un coltello e, ripulito un pezzettino di corteccia, vi incise: “Franz – 10 aprile 1945”.
    Quand’ebbe finito e si volse, si trovò davanti il vecchio Rolli che gli tese la mano e gli disse: - Dio la protegga -.
    Il sottufficiale saltò sulla moto e schizzò via. Passato lo Stivone, si fermò un momento per dar fuoco alla miccia che già i suoi uomini avevano preparato e si accucciò dietro l’argine. Dopo un minuto il pilone centrale del ponte si sgretolò trascinando nel letto del fiume tutta la baracca. Allora il tedesco risalì in moto e partì, ma prima, volle rimirarsi ancora una volta il suo noce. – I ponti si rifanno in poche settimane – borbottò – per rifare una pianta così ci vogliono dei secoli –

    (continua)
     
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    Gerda III parte

    Il figlio del Rolli tornò dalla Germania nell’agosto e trovò suo padre che l’aspettava ai piedi del noce americano.
    E il padre strinse la mano al figlio reduce, stando coi piedi proprio lì dov’era quando aveva stretto la mano al tedesco.
    E fu sotto quel noce che il vecchio trascorse gli ultimi giorni della sua esistenza, quando cinque o sei anni dopo il ritorno del figlio se ne andò per sempre dal Palazzone.
    Così il giorno in cui il mediatore Tognone venne a dire al giovane Rolli che c’era un tizio di Milano disposto a dargli un milione per il noce americano, il Rolli lo cacciò via come un cane.
    Tagliare il noce americano sarebbe stato come fare un dispetto alla memoria del vecchio Rolli. E poi quella pianta aveva assistito a tanti fatti importanti da diventare quasi un personaggio di famiglia.
    Ma non c’è razza più tremenda di quella dei mediatori. Non esiste gente al mondo più malcreata dei mediatori. Se li cacciate dalla porta rientrano dalla finestra. E, quando credete di aver concluso un affare e senza che ci sia stato di mezzo ombra di mediatore ecco che ne saltano fuori come minimo tre. E uno urla che, quel mercoledì, mentre voi passavate in macchina nel tal posto, vi raha gridato che “quella cosa là era matura”. L’altro giura che l’affare l’aveva in mano prima lui e voi l’avete saputo perché lui ve l’ha fatto dire dal figlio del mugnaio. E il terzo geme che, se non c’era lui a lavorare sotto sotto, avreste speso un milione in più. E tutti vi dicono queste cose in pubblico. E gridano come maledetti, picchiandosi grandi manate sul petto, atteggiandosi a galantuomini imbrogliati da un emerito mascalzone. E minacciano citazioni, tribunali, e spiegano al popolo che vi mangeranno perfino la camicia. Non c’è razza più infida di quella dei mediatori: se un disgraziato cade nelle loro grinfie è finito. Naturalmente ci sono anche delle persone per bene, fra i mediatori: ma hanno scarso successo e sono essi stessi vittime dei mediatori “in gamba”.
    Tognone era un mediatore “in gamba” e quando si vide messo alla porta dal Rolli non si sgomentò.
    “Deva pagare la tassa di successione per l’eredità e ha bisogno di baiocchi sonanti: mollerà”
    Oltre a questo c’era il fatto che il tipo di Milano voleva il noce ad ogni costo. Si trattava di un grosso industriale del legno, di quelli che espongono in Fiera i cadaveri di colossali alberi assassinati: una pianta come il noce americano del Rolli, esposta in Fiera, avrebbe giovato al prestigio della ditta.
    Tognone ritornò quindi all’assalto offrendo non più uno, ma due milioni. Lo cacciarono via e rispuntò fuori con l’offerta colossale di tre milioni. Al Rolli tre milioni in contanti avrebbero fatto comodo specialmente per via della tassa di successione che era pesante. Ma tenne duro: ma Tognone tornò all’assalto accompagnato da due compari: le vengo a fare una proposta che, se lei non l’accetta, si mangerà le mani per la rabbia – disse tirando fuori dalla tasca interna del panciotto l’enorme portafoglio a fisarmonica.
    Mise sulla tavola un foglietto: - Questo è un assegno in bianco – spiegò – la cifra la scriva lei.
    Il Rolli tentò di rispondere ma Tognone lo prevenne: - non dica niente, io l’assegno glielo lascio lì. Siamo fra galantuomini e poi ci sono due testimoni: ci pensi sopra. Domattina alle dieci passeremo a prendere la risposta. Se ne andarono e il Rolli rimase nel suo studio a camminare in su e in giù. Ogni tanto guardava il foglietto che il Tognone aveva deposto in mezzo alla tavola.
    Erano le dieci del mattino: aveva ventiquattr'ore davanti. Ventiquattr'ore sono troppe per resistere alla tentazione di scrivere su un foglietto di carta: "Lire cinque milioni".


    (continua)
     
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    Gerda IV parte

    Mentre il Rolli stava facendo per la centesima volta queste considerazioni, bussarono alla porta dello studio ed entro la cameriera: - Ci sono al cancello due girovaghi che desiderano parlare con lei - - Girovaghi? - - Sì, di quei forestieri che fanno il giro del mondo in motocicletta. Ne passano tanti.-
    - Mandali all’inferno - - Ho provato ma sono duri. Dicono che devono parlare al sig. Rolli –
    Il Rolli, seccato ma incuriosito, uscì e arrivò fino al cancello. I girovaghi erano tutt’e due in calzoncini corti e camiciola e biondi tutt’e due. Però il primo era un pezzo d’omaccio alto un metro e ottanta e il secondo una ragazza veramente importante. Viaggiavano con un mucchio di fagotti sotto i quali spuntavano le ruote di qualcosa che doveva essere una motocicletta, ma che avrebbe dovuto essere, data la quantità enorme di bagagli, almeno un trattore Caterpillar.
    - Signor Rolli? – domandò sorridendo l’omaccio. – Sono io -. L’omaccio scosse il capo. – Non lei, il signor Rolli è molto più vecchio. Forse suo padre?
    - Sì mio padre, è morto l’anno scorso –
    L’omaccio parve profondamente colpito dalla notizia. – Mi dispiace molto, non sapevo, non immaginavo –
    Parlottò in lingua straniera con la donna, poi si volse al Rolli che ancora non aveva aperto il cancello e rimaneva lì a guardare i due come fossero bestie rare nel giardino zoologico.
    - Mi dispiace infinitamente – disse l’omaccio – Io le sarò molto grato se lei ci lascerà vedere un momentino l’albero –
    - L’albero, quale albero? –
    - Il noce americano – spiegò sorridendo l’omaccio – Mi piacerebbe fotografarlo da vicino. Il tronco. I rami visti da sotto –
    Il Rolli si mise a ridere: ma cos’era diventato, quel benedetto albero? Il personaggio del giorno?
    Aperse il cancello: non poteva tenerlo chiuso davanti al sorriso smagliante di un pezzo di ragazza così.
    - Prego –
    L’omaccio si inchinò e, aiutato dalla ragazza, spinse la moto someggiata nel cortile. La issò sul cavalletto poi seguì il Rolli che s’era avviato verso il parco.
    Al cospetto del noce americano, i due stranieri si fermarono. Pareva, quel giorno, che il noce americano fosse ancora più straordinario.
    La ragazza parlò a lungo con animazione all’omaccio che la stava ad ascoltare tentennando il capo.
    - Mia moglie è molto contenta d’aver visto l’albero – spiegò sorridendo l’omaccio al Rolli – Io le avevo parlato tanto di questo albero e lei si era incuriosita. Allora abbiamo fatto molte economie e siamo venuti a vederlo. Ci siamo sposati nel 1949, ma questo è il nostro viaggio di nozze.
    Il Rolli guardò perplesso l’omaccio che rispose sorridendo alla muta domanda espressa dal Rolli.
    - Il 10 aprile del 1945 ho stretto la mano di suo padre qui, in questo punto – disse, e col dito toccò la corteccia sul quale stava inciso “Franz 10 aprile 1945”
    Il Rolli si sentì bruciare dalla vergogna di non aver capito subito; mille volte suo padre gliel’aveva raccontata quella storia!
    - Mi scusi – balbettò stringendo la mano dell’omaccio e poi quella della donna – Prego prego, si accomodino in casa! Sono felice di averli miei ospiti. Come sarebbe contento mio padre se fosse ancora qui, parlava sempre di lei ..-
    L’omaccio tradusse ogni cosa alla moglie cui, via via, il viso si illuminava. Alla fine l’omaccio si rivolse al Rolli: - Grazie dell’invito, anche a nome di mia moglie, però se lei vuole veramente farci un regalo, deve permetterci di piantare la tenda sotto il nostro albero. Qui sotto mi pare di essere un po’ a casa mia. Mi sento … - Non trovava la parola e allargò le braccia.
    - Mi sento …
    - Coperto? – suggerì stupidamente il Rolli
    - No, coperto, più che coperto.
    - Protetto?
    - Protetto, sì protetto.
    Il Rolli voleva che entrassero in casa, ma i due crucchi erano testardi.
    L’omaccio andò a prendere la moto e aiutato dalla moglie cominciò a disfare i fagotti.
    La tenda sorse rapidamente ai piedi del noce americano.
    L’indomani, il Rolli, appena alzato, corse giù al parco; ma i due girovaghi erano scomparsi. Già ripartiti verso Nord.
    Ai piedi del noce americano era deposta una coroncina di fiori di campo. E il Rolli comprese per chi fossero quei fiori. E nella corteccia, vicino a “Franz – 10 aprile 1945” era stato inciso “Franz und Gerda – 10 agosto 1952”.
    Tutto questo gli riempì il cuore di sottile commozione: ciononostante il Rolli rise perché improvvisamente si era accordo di sapere con esattezza quello che avrebbe scritto sull’assegno in bianco. E ve lo scrisse a stampatello.
    E quando Tognone venne a ritirare l’assegno lesse la parola a stampatello e capì che non era il caso di insistere.

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    :unsure: Ma .. anche Bindu è sparito?

    Beh, visto la latitanza, questa sera non un racconto di fantasia, ma un racconto autobiografico di G. Guareschi, dedicato a Tullio: ti conviene continuare a fare l'ingegnere, è sempre utile ...

    IL TRIONFO DELLA CATERINA

    Qualcuno dei miei ventitrè lettori mi ha domandato se questa mia animosità nei riguardi della RAI tragga origine da un fatto personale o da idiosincrasia. Posso rispondere che la stessa irritazione provavamo io e i miei amici quando l’Ente radiofonico di Stato si chiamava EIAR e si comportava come si comporta oggi la RAI. Quando cioè, ogni sera, al microfono della radio, c’era che ci spiegava che la guerra andava ogni giorno più vittoriosamente e ci insegnava come deve comportarsi un bravo italiano. Fino a quando nel febbraio del 1943, il settimanale Bertoldo, di cui ero redattore capo, sparava un violentissimo attacco contro il più autorevole e seccante dei commentatori radiofonici ufficiali. Era la prima volta che un giornale osava tanto sotto il Regime d’allora, e la cosa fece un chiasso maledetto e quel numero di Bertoldo diventò una rarità e raggiunse prezzi astronomici.
    Nessun fatto personale, nessuna allergia nei riguardi della radio di Stato o della radio in generale. Anzi: ci fu un periodo in cui la radio rappresentò anche per me qualcosa di estremamente importante, di vitale, perché anche per me, sepolto assieme a seimila altri ufficiali dell’ex Regio Esercito Italiano in un Lager, la radio fu l’unico legame con il mondo dei vivi.
    Si chiamava Caterina ed era figlia della disperazione e della genialità italiana. Genialità che, purtroppo, si manifesta soltanto quando gli italiani sono nei guai fino agli occhi. Quando le cose procedono normalmente e quando – come ora – l’anormalità diventa normale, gli italiani si adagiano sul “tira a campare” e assistono inerti, addirittura divertiti, alla loro rovina. Ma è difficile immaginare come gli italiani diventino intelligenti quando si trovano nei pasticci. Nessun popolo al mondo ha simili doti di recupero ed è tanto fermamente deciso a sopravvivere. Io avevo scritto sulla fiancata della mia cuccia: “Non muoio neanche se mi ammazzano”: in fondo questo puo’ essere il motto dell’italiano nei guai.
    La Caterina era una trappoletta di centimetri 9x10x5. Nacque nel campo di concentramento di Sandbostel e, per quanto la Gestapo ne conoscesse l’esistenza e la cercasse rabbiosamente, non riuscì a scoprirla mai. Anzi, riuscì ad andarsene da quel campo per entrare in un altro e fece, infine, urlare d’entusiasmo il comandante americano arrivato con le truppe liberatrici: la voleva ad ogni costo, ma dovette accontentarsi di scattarle una quantità enorme di fotografie, perché la Caterina era troppo importante per chi l’avesse costruita e ne aveva fatto l’unica arma di difesa spirituale.
    Nacque dal niente dicevo: dal niente in senso relativo, naturalmente. Come l’Eterno Padre, per costruire Eva, partì da una costola di Adamo, i costruttori di Caterina partirono da una piccola valvola. Questa valvolina “LQ5”, introdotta nel Lager Dio sa come, era l’unico pezzo non arrangiato di tutta la Caterina. Il resto fu costruito coi normali mezzi di cui puo’ disporre un uomo che si trovi nudo in mezzo a un prato di trifoglio.
    Non occorre essere dei tecnici per comprendere che disporre d’una sola valvolina rappezzata con catrame tolto dalla copertura delle baracche e pretendere di cavarne un apparecchio radio ricevente è come disporre solo di uno spinterogeno e pretendere di cavarne un’automobile perfettamente funzionante.
    Un certo arnese, detto “condensatore variabile di sintonia” venne, per esempio, costruito con la latta di un barattolo raccattato nell’immondizia e con pezzi di celluloide ritagliati da buste portatessera. L’altro essenziale arnese, chiamato “condensatore fisso” venne costruito con stagnola e cartine da sigarette, mentre la “resistenza fissa” ebbe, come materia prima, la carta nella quale era avvolta la margarina della razione, trattata con grafite di matita.
    In un portasapone da barba, trovò posto il gruppo “Bobine, antenna, sintonia, variometro”. Il tutto costituito da filo isolato da bobina, cartone arrotolato a cilindro e cera di candela che funzionava a meraviglia perché tutti l’avevano abilmente illusa chiamandola “paraffina”. Qui, però, fu necessario l’aiuto del Grande Reich. Occorrevano filo isolato da bobina e dei magnetini per costruire la cuffia: come si possono trovare queste cose in un campo di concentramento?
    Il trovarobe notò che il sergente addetto all’ufficio postale del campo,ogni giorno, lasciava per qualche ora la sua bicicletta appoggiata alla baracca. Studiò gli orari e, una mattina – lavorando a pochi metri dalla sentinella appostata sulla torretta – tolse la dinamo dal fanale. Poi, tolti filo e magnetini, la riavvitò alla bicicletta. L’impresa fu compiuta dall’ing. Carlo Martignago. Eravamo molto amici ma, adesso, non mi saluta più perché ho osato scrivere con una certa irriverenza un articolo sugli “alfisti” e lui è un “alfista”.
    L’ing. Olivero, creatore della Caterina, stabilì a un certo momento che aveva bisogno di una batteria anodica: per costruirla si dovettero miracolosamente racimolare tra i seimila prigionieri venti vecchie monete di rame da dieci centesimi, poi ritagliare venti dischetti dalla copertura di zinco delle vasche di legno dei lavatoi e venti dischetti di panno da una coperta. Il tutto, disposto nell’astuccio di una vecchia pila tascabile, veniva posto in grado di fornire 20 volts teoretici corrispondenti a tre quarti d’ora di ricezione, con acido acetico ricavato dai pochi fortunati che ricevevano da casa qualche pacco rallegrato da scatolette di sottaceti.
    Coi magnetini del sergente e altre cosette racimolate Dio sa come, più un barattolino di latta e un dischetto di cartone, venne costruita la cuffia con un solo auricolare.
    Il congegno chiamato “comando della reazione” fu trovato, grazie al cielo, già bell’e pronto e si chiamava Olivero.
    Mi spiego. Il Centro-radio aveva sede in una specie di magazzinaccio, una baracca piena di stracci pidocchiosi e di zoccoli spaiati e fangosi. Nella stamberga esisteva il castello semisfasciato d’uno di quegli orrendi pollai a sei posti che ci erano assegnati come letti. Il tenente Olivero si appollaiava su una traversa orizzontale del secondo ripiano, tenendo una gamba penzoloni nel vuoto. Cuffia all’orecchio, con la sinistra sorvegliava i comandi della Caterina, con la destra scriveva ricevendo in italiano, tedesco, francese e inglese. La gamba penzolante nel vuoto si alzava e si abbassava continuamente e questa era la “regolazione micrometrica del comando della reazione” in quanto, avvicinando e allontanando il piede dal pavimento di terra battuta preventivamente inumidito, variava la capacità d’antenna. Antenna che era rappresentata, a sua volta, dallo stesso corpo dell’operatore perché il tenente Olivero teneva fra i denti il filo che partiva dal “piede d’antenna”.
    Questa insomma era la famigerata Caterina che la Gestapo cercava rabbiosamente coi tele goniometri, senza mai poterla trovare, perché, attorno alla nostra trappoletta, esisteva una colossale rete di protezione composta da 12.000 occhi, 12.000 orecchie e 6.000 cervelli. E, non appena qualcosa d’insolito veniva notato nel campo, la Caterina smetteva di ricevere e, nascosta dentro una gavetta da alpino, viaggiava per il campo passando di mano in mano.
    Per noi, la Caterina era il miracolo. Era la vittoria dell’intelligenza contro la fame, il freddo, l’angoscia, la solitudine e il sopruso. Perché la Caterina funzionava meravigliosamente bene e riceveva tutte le più importanti emittenti europee. E solo attraverso la Caterina noi sapevamo cio’ che avveniva nel mondo. La Caterina tesseva per noi l’invisibile ma tenacissimo filo che legava migliaia di disperati al pilone della speranza.
    Le notizie captate dalla Caterina, e immediatamente tradotte, circolavano scritte su brandelli di carta per tutto il campo. E, tradotte in francese, entravano anche nel campo dei prigionieri francesi.
    C’era chi si era disegnata, un po’ a memoria e un po’ basandosi su cartine strappate a qualche Atlantino De Agostini sfuggito alle infinite perquisizioni, una carta del teatro di guerra, e, su di essa, si segnava – grazie sempre alla Caterina – l’avanzata delle truppe che dovevano venire a tirarci fuori dal reticolato. E quando nei primi giorni dell’aprile 1945 il cerchio si strinse intorno a noi, e la guerra si portò a ridosso del reticolato, e sopra le nostre teste incominciarono a fischiare i proiettili delle artiglierie, non fu una sorpresa. Fu il trionfo della Caterina.
     
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  11. TullioConforti
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    John Hancock:

    Non è amato dalla gente, è infelice e depresso e, ultimamente, ha cominciato anche ad attaccarsi alla bottiglia. Questo è John Hancock, il primo supereroe che odia la sua natura e forse l’unico che abbia mai contemplato il suicidio. Per anni ha provato a servire la giustizia dando la caccia ai cattivi, ma ultimamente il suo stile si è abbastanza “diluito” nell’alcol. Hancock vive da barbone, è un tipo conflittuale, sarcastico, disilluso e, soprattutto, un grande incompreso. E tutte le volte che il supereroe cerca di risolvere un problema, con le sue azioni, ne genera molti di più. Palazzi, treni, strade, automobili o qualunque altra cosa gli capiti a tiro vengono distrutti nel giro di un secondo mentre si lancia per le strade, volando in stato di ubriachezza. L’ultima volta che ha servito la legge, ha provocato danni alla città, per la bellezza di 9 milioni di dollari. La gente ne ha abbastanza di lui e tutto ciò che vuole è che Hancock se ne vada. La sua occasione di redenzione arriva quando Hancock incontra Ray Embrey un PR executive deciso a rifare l`immagine dell`uomo, sottoponendolo a sedute presso gli Alcolisti Anonimi ed a terapie per il controllo della rabbia.

     
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  12. TullioConforti
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    La Ferrari "Spatafora":

    Alberto Capelli vive a Rimini, in Emilia – Romagna, dove dirige con il fratello un’impresa di autotrasporti, è sempre sorridente e parla della sua vasta collezione d’auto d’epoca come se parlasse dei suoi figli. Al piano terra del grande garage a conduzione familiare si vedono sparse qua e là Mercedes, MG, Alfa Romeo e Lancia. Nel seminterrato, d’auto d’epoca c’è ancor di più. Queste ultime però si trovano a differenti stadi di restauro: tra gli esemplari più rari si trova anche una Graham che fu per sbaglio la prima automobile ad avere un po’ troppa potenza. Al centro di tutte le vetture si trova un capolavoro, un pezzo unico, una Ferrari 250 GTE che appartenne agli inizi degli anni Sessanta alla Polizia Stradale di Roma.

    Se ci si rituffa indietro negli anni Sessanta, ci si rende conto del fatto che esisteva un malinteso tra la Polizia Stradale romana e gli automobilisti della capitale. Gli automobilisti benpensanti credevano che a Roma i segnali stradali indicanti i limiti di velocità non fossero altro che una stima empirica da parte della Polizia circa la velocità massima alla quale si poteva andare in un determinato tratto stradale. E dato che gli italiani sono quel che sono, ogni automobilista si era messo in testa di dimostrare il fatto che la Polizia si sbagliasse per un certo margine. Scherzi a parte – ciò che veramente accadde fu che gli automobilisti sia romani che del resto d’Italia andavano in macchina troppo velocemente: non che gli italiani abbiano qualcosa contro i limiti di velocità. Come ogni uomo politico italiano può certamente confermare, si possono introdurre tutti i limiti di velocità che si vogliono finché vengano rispettati.

    Tuttavia la Polizia considerava la velocità un problema sempre più crescente. E in uno scenario che sembrava possedere tutti i requisiti di una tragedia classica, la Polizia espresse la propria preoccupazione ai pezzi grossi del dipartimento di Polizia del comune di Roma. Non è difficile indovinare che la Polizia Stradale avesse un piano segreto e che nella confusione e nella rabbia e frustrazione fosse stato ideato un astuto piano per dare una soluzione ad un problema deplorevole la quale significava per la Polizia il riacquisto dell’onore e del rispetto perduti. La Polizia Stradale non aveva nient’altro di bisogno che di una sola cosa per stabilire il record di velocità nell’inseguire le macchine che trasgredivano i limiti di velocità: aveva solo bisogno di una Ferrari!

    La Polizia Stradale non ottenne naturalmente solo una Ferrari. No, ne ottenne in realtà due. Il 22 novembre del 1962, la Polizia Stradale romana prese in consegna due Ferrari 250 GTE identiche e di color nero, scelta cromatica tipica del dipartimento di polizia. Le due gemelle furono sontuosamente equipaggiate di un sistema di comunicazione via radio, di luci blu e munite della scritta “Polizia” sui lati. Montavano un V12, 2,9 litri, alimentato da tre weber identici, con una potenza di circa 240 CV. La velocità massima si aggirava intorno ai 200 chilometri orari e naturalmente la Polizia Stradale non vedeva l’ora di poter provare i suoi nuovi gioielli (del resto, erano anch’essi italiani).

    Come si vedrà subito, tale gioia non era destinata a durare a lungo. Proprio quello stesso giorno di novembre in cui le due Ferrari entrarono in servizio, una delle due gemelle si trovava in autostrada in direzione di Roma, quando all’improvviso i due poliziotti in servizio si misero ad inseguire un automobilista che andava troppo veloce. Sull’autostrada scivolosa, il poliziotto che stava al volante perse però il controllo della vettura, sbandò trasformando così la Ferrari in una macchina da rottamare. Non appena la storia finì sulle prime pagine di tutti i giornali, tutti gli automobilisti che di solito non rispettavano i limiti di velocità si sbellicarono dalle risate. Per evitare che una situazione del genere si ripetesse, la Polizia decise di ritirare dal servizio l’altra vettura rimasta e di metterla sotto chiave in un deposito della Polizia.

    Questa potrebbe essere benissimo la fine della storia, se non fosse stato per un poliziotto di nome Armando Spatafora. Quest’ultimo si era fatto un nome sparando a circa quindici “banditi”, come allora venivano definiti, ma qui non se ne vuole parlare dettagliatamente. Si presume che se si fosse stati uccisi da Armando Spatafora, si sia stati in definitiva dei veri banditi. Naturalmente un uomo come Spatafora non seppe resistere alla tentazione di una Ferrari che era in qualche modo più affascinante dell’Alfa Romeo 1900 che gli era stata consegnata come vettura di servizio.

    Il commissario di Polizia di Roma non seppe dire di no a Spatafora quando quest’ultimo domandò al primo di poter guidare lui la Ferrari. La condizione alla quale ottenne l’auto fu quella che solo Spatafora potesse guidarla. Condizione superflua perché Spatafora amava la sua Ferrari più di quanto non amasse la propria madre e non gli sarebbe mai venuto in mente di farla guidare a qualcun altro. Ciò non implica tuttavia che abbia trattato bene la sua Ferrari, divenuta ormai un mito nella Roma di quegli anni. È facile immaginarsi che un criminale avrà riflettuto per benino prima di imbattersi in un inseguimento con Spatafora al volante della suo gioiello nero. In più occasioni, sia Spatafora che la sua Ferrari furono coinvolti in inseguimenti: il più leggendario fu quello che vide un criminale sfuggire a Spatafora scendendo in macchina la scalinata di Trinità dei Monti, nel cuore di Roma. Tuttavia invano perché il criminale fu poi catturato da Spatafora a Piazza di Spagna. Come la Ferrari sia potuta sopravvivere a tali eccessi, si lascia all’immaginazione dei lettori; secondo Alberto Capelli, la vettura non ha mai subito riparazioni.

    La macchina finì nelle mani di Alberto Capelli quasi per coincidenza. Ogni anno la Polizia italiana organizza una vendita all’asta. E fu così che un anno toccò al lotto chiamato “Scuderia Pantere Storiche 250 GTE”. Era proprio il dipartimento di Spatafora nel periodo in cui la Ferrari fu ritirata dal servizio e cioè nel 1969, ma poteva essere mai proprio quell’auto? Il fato vuole che Alberto andò alla vendita all’asta e ritornò a casa con una Ferrari. Del prezzo d’acquisto non si riesce a cavare molto da Alberto, ma a giudicare dall’espressione del viso si direbbe che l’ ha acquistata quasi per niente. Sebbene la vettura non abbia mai subito riparazioni o operazioni di restauro, ci sono comunque dei dettagli nelle specifiche tecniche della vettura che danno filo da torcere ad Alberto.

    È inevitabile l’ironia che fa sì che per alcuni dei criminali portati in commissariato da Spatafora sia stata la loro prima volta su una Ferrari. Sebbene la letteratura moderna sulle Ferrari tralascia sempre le 250 GTE, di questo modello ne furono costruite 955 tra il 1960 e il 1963 rendendo così la 250 GTE una delle più famose Ferrari di tutti i tempi.

    Se oggi si va sulla macchina di Alberto, si prova una sensazione di freschezza. Il motore V12 ronza emettendo quel suono stimolante delle macchine da corsa e non quello più robusto di una GT. Il cambio a cinque marce è di facile maneggevolezza e di funzionamento preciso e persino i freni sembrano essere stati appena cambiati. Il più bello è quando si incontra una macchina di pattugliamento della Polizia. I poliziotti fissano la Ferrari increduli e sorpresi, abbandonando l’idea di fermarVi per non correre il rischio di prendere un granchio e rendersi quindi ridicoli. A parte il fatto che Alberto va ancora in giro con la targa originale con la scritta “Polizia 29444”, numero oggigiorno non più valido, ciononostante rimane pur sempre un’auto della Polizia. L’unica cosa che non funziona è la luce blu sul tetto come spiega Alberto, questa è l’unica regola che la Polizia locale potrebbe far applicare se si rinnovasse l’impianto elettrico della vettura. La sirena funziona comunque perfettamente se si ha voglia di dirigere il traffico. E ancora oggi gli “assatanati” di velocità tolgono il piede dall’acceleratore non appena vedono la Ferrari in questione. E in fin dei conti, la Polizia Stradale di Roma raggiunse il suo obbiettivo e cioè quello di intimidire i trasgressori, sebbene si possa mettere in dubbio che questo sia stato l’obbiettivo voluto dai poliziotti …

     
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  13. TullioConforti
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    La metamorfosi:

    Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto.

    A chi non è mai capitato di svegliarsi una mattina in preda agli incubi e credere di essere ancora dentro al terribile sogno? È capitato a tutti almeno una volta nella vita, per Gregor Samsa, invece, l’incubo diventa realtà, egli si sveglia in una mattina del 1915 e pian piano si rende conto di essere diventato un vero insetto con tanto di corazza e di zampette.

    Gregor che si trova immobile nel suo letto percepisce il suo essere divenuto un insetto in quanto, tentando di ergersi eretto come qualunque uomo, si rende conto di esserne impossibilitato fisicamente oltre a provare un dolore lancinante alla schiena adesso divenuta dura e violacea.

    Gregor Samsa, un uomo comune, un modesto impiegato che un mattino si sveglia e si accorge di essersi trasformato in un insetto mostruoso.

    La prima reazione dell'uomo non è di sgomento, né di meraviglia per il suo nuovo stato, ed anzi si preoccupa più del modo in cui andare al lavoro (è commesso viaggiatore) in quelle condizioni, tenendo conto anche del fatto che è in mostruoso ritardo.

    Nonostante i suoi tentativi di tenere nascosta la sua situazione al resto della famiglia, al procuratore, ed al suo datore di lavoro, questi ultimi riescono ad entrare nella stanza. Il terrore che colpisce i suoi familiari ed il procuratore, tuttavia, li obbliga a richiudere immediatamente la porta, spingendo il povero Gregor dentro con un bastone. La vista di Gregor in quelle condizioni porta a reazioni di orrore in tutti loro.

    Una volta Gregor prova ad uscire dalla sua stanza, provocando lo svenimento della madre e l'attacco del padre con il lancio di alcune mele: una di queste lo colpisce e lo ferisce.

    Inizia per Gregor una vita d’inferno, rinchiuso dentro una sorta di “tana”, rifiutato ed umiliato dal padre, amato ma tenuto lontano dalla madre e accudito in modo complice e quasi incestuoso dalla sorella che sarà la stessa che ne proporrà l’eliminazione.

    Gregor è un insetto costretto a comportasi da uomo, che capisce ciò che lo circonda ma che da insetto viene trattato, gli vengono anche tolti dalla sua stanza tutti i mobili di famiglia in modo da dargli maggior spazio possibile per i suoi movimenti inumani.

    La disperazione di Gregor e' grande, nel guardare la sua famiglia da lontano mentre mangia riunita nello stesso tavolo dove poco prima era anch’egli seduto.

    L’uomo Gregor si alzava tutte le mattine all’alba per andare a lavorare, faceva il commesso viaggiatore, un lavoro che detestava ma che era costretto a fare per mantenere la sua famiglia e per darle una certa sicurezza economica, ed inoltre per aiutare la sorella ad andare un giorno al Conservatorio.

    La sua famiglia non naviga nell’oro, un padre che aveva smesso di lavorare da tempo, anziano e appesantito, una madre vittima dell’asma che malamente riusciva a muoversi e una sorella diciassettenne che badava alla faccende domestiche e con la passione per il violino.

    La mattina della trasformazione, Gregor, ha come primo pensiero quello di andare al lavoro, sa di essere in ritardo e sa che questo gli avrebbe fatto perdere il posto e ciò non poteva accadere, lui doveva sostentare la sua famiglia.

    Tanto era la sua devozione che non si curò più di essere divenuto uno scarafaggio….

    Il padre non accetterà mai l’immagine del figlio divenuto insetto, la madre, impotente, conserverà sempre il suo istinto materno ma a poco servirà a Gregor.

    Il cibo lega Gregor a Grete in un rapporto quasi incestuoso, Grete sembra la fatina buona delle fiabe, alla quale però manca la formula magica per rompere l’incantesimo.

    L’uomo è in realtà solo e solo deve farcela nel mondo.

    La ragazzina si prende cura del fratello, dandogli da mangiare e pulendo la sua nuova dimora; è lei però che convincerà madre e padre del fatto che oramai quell’essere non è più il fratello ma solo una brutta bestia di cui sbarazzarsi.

    Dopo poco tempo, Gregor viene completamente abbandonato a sé stesso, anche dalla sorella che nel frattempo ha trovato un lavoro, ed il conseguente malessere lo porta in uno stato tale da rifiutare il cibo offertogli fino a giungere ad una morte lenta, causata dal rifiuto nei suoi confronti della sua famiglia.

    Agli occhi della famiglia, infatti, egli è divenuto un peso, visti anche i problemi economici che i familiari devono affrontare a causa della perdita del lavoro di Gregor, unico componente della famiglia che lavorava. Il padre, con cui aveva avuto dei contrasti, arriva persino a pensare a come liberarsi del figlio, visto ormai solo come un mostro.

    Si sbarazza infine del cadavere di Gregor la governante ad ore della casa, mentre la famiglia spera in una ripresa dalla crisi finanziaria con un matrimonio conveniente della figlia, che nel mentre è divenuta una bella ragazza e si avvicinava all'età del matrimonio.

    La famiglia infine trasloca in una dimora più piccola, iniziando così una nuova vita, dimenticando per sempre Gregor.
     
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  14. TullioConforti
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    Belisario il valoroso, Giustiniano il vile:

    http://www.italiamedievale.org/sito_acim/p.../belisario.html

    Belisario fu forse l’uomo che più da vicino sperimentò l’incontenibile invidia dell’Imperatore Giustiniano, dal quale fu vessato ed insultato malgrado avesse prestato leale servizio per la durata di tutta una carriera costellata di successi e condotta con quell’esperienza e senso dello Stato esaltato dall’amore del Popolo; testimoniata dal timoroso rispetto dei nemici; confortata, a parer di dante, dalla protezione di Dio: senz’altra colpa che la competenza, il coraggio, l’abilità strategica e l’attaccamento alle Istituzioni, gli furono inflitti l’onta del carcere e la condanna all’isolamento sociale e civile.

    Nato da una famiglia di contadini verso il 500 a Germane, ai confini fra l’Illiria, la Tracia e la Macedonia, e morto a Costantinopoli nel 565, egli entrò giovanissimo nell'esercito e fece parte della scorta personale prima di Giustino I e poi di Giustiniano che, nel 527, lo nominò Comandante delle truppe orientali con l’incarico di stroncare le incursioni dei Persiani: li sconfisse, infatti, a più riprese con l’efficacia della valenza tattica contro la loro superiorità numerica benché, dopo la travolgente vittoria conseguita nel giugno del 530 nella Battaglia di Dara, nel 532 fosse battuto a Callinicum sull’Eufrate.

    L’incidente di percorso non appannò la sua reputazione: l’11 gennaio di quello stesso anno, egli ebbe modo di dominare la scena della turbolenta Rivolta di Nika, accesa da tifoserie rivali nel contesto delle corse dei carri all’inaugurazione dei giochi di Costantinopoli.

    La contrapposizione sportiva fu sostanzialmente un pretesto antidinastico che tenne la città in scacco per sei giorni, nel tentativo di rovesciare l’Imperatore: infatti, al grido di Nika, col quale si incitavano i campioni, il Popolo insorse accanto alle opposte fazioni dei Verdi e degli Azzurri che, tradizionalmente antagoniste, si coalizzarono contro l’assolutismo e l’oppressione fiscale della Corona trasformando una celebrazione sportiva in guerra civile. Il dissenso degenerò in forme di tremenda violenza, enfatizzata dall’incendio della città e dalla ignominiosa fuga del Sovrano che, pronto ad abdicare, si barricò nel palazzo.

    Fu il Generale a salvargli il trono e la testa.

    Postosi a capo dell’esercito con il Magister Militum dell’Illiria Mundus, soffocò la ribellione con un terrificante bagno di sangue nel quale caddero fra i trenta ed i cinquantamila insorti, come fu testimoniato da Procopio; dalla Chronographia (XVIII) di Giovanni Malala e dal De Magistribus (III) di Giovanni Lido. Con consolidata esperienza di piazza; indiscusso valore; spietato decisionismo e inflessibile rigore nei confronti degli agitatori: un composto di ingredienti all’epoca necessari alla reputazione di un buon ufficiale, Belisario riprese il controllo dell’ordine pubblico riscuotendo non solo la gratitudine della discussa Imperatrice Teodora, ma anche il premio del comando di una imponente spedizione contro i Vandali, condotta fra il 533 ed il 534 e motivata da impellenti opportunità politiche.

    Nei territori dell’Africa del Nord occupati dai Vandali, Gelimero aveva deposto ed assassinato il Sovrano Ilderico, amico dei Bizantini: l’evento fornì a Giustiniano un legittimo appiglio per intervenire.

    Di fatto egli non aveva alcun interesse a vendicare il delitto né a punire il sopraffattore ma, liquidandolo, contava di procurarsi il controllo di quel territorio per garantirsi uno sbocco sul Mediterraneo occidentale.

    Alla fine dell’estate del 533, Belisario sciolse gli ormeggi; fece rotta su Leptis Magna e a marce forzate raggiunse Cartagine ove venne a scontro campale con il regicida: il 13 settembre combatté la battaglia di Ad Decimum, che segnò l’inizio del declino vandalo ed il primo atto di riappropriazione imperiale delle regioni occidentali.

    Ad Decimum: letteralmente A dieci miglia, indicava quella località priva di toponimo ed ubicata a dieci kilometri a Sud dell’antica città, ove le agguerrite legioni bizantine soverchiarono i reparti vandali.

    Gelimero aveva affidato duemila uomini al nipote Gibamondo, con l’ordine di attaccare l’ala sinistra avversaria; aveva posto il fratello Ammata a capo di ulteriori duemila unità, con il compito di contrastare il passaggio delle truppe nemiche proprio nello stretto corridioio di Ad Decimum ; aveva assunto il diretto comando dei rimanenti settemila soldati, mirando a sfilacciare la consistenza dei reggimenti i Belisario e a massacrarli nel corso di una ritirata a suo avviso inevitabile. La sorte, infatti, nelle prime fasi gli arrise; ma i suoi piani fallirono quando, nel pieno del conflitto, egli fu raggiunto dalla notizia della morte dei due Luogotenenti.

    Vera o falsa che essa fosse, Gelimero perse il controllo della situazione ed il suo disorientamento permise a Belisario di ricompattarsi.

    L’usurpatore, alla fine di un giorno di sangue, subì una disonorevole rotta aggravata dalla controffensiva unna che sfondò ogni residua resistenza e lo mise in fuga.

    I Bizantini si acquartieraro sul campo di battaglia e, solo al mattino successivo, si recarono a Cartagine: era domenica 15 ottobre quando, accanto alla moglie Antonina, il Generale vi fece solenne ingresso fra urla di giubilo di una popolazione provata dal duro giogo barbaro e stupefatta dalla generosità con la quale era stata ordinata alle soldatesche l’astensione da ogni razzia. Disposto il piano di ricostruzione delle difese, il 15 dicembre successivo egli sconfisse i Vandali per la seconda ed ultima volta nella battaglia di Ticameron: nel gennaio del 534, Gelimero si arrese al Monte Papua e, da quel momento, le Province del Nord Africa tornarono sotto il dominio imperiale.

    Belisario rientrò a Costantinopoli con la reputazione di Salvatore della Patria.

    Fra il 535 ed il 553, Giustiniano decise di riguadagnare all’Impero d’Oriente anche le Province italiane, perdute a favore di Odoacre prima e di Teodorico dopo. Il casus belli, similmente a quello sollevato da Gelimero, questa volta risiedette nell’assassinio della figlia del potente Re goto, e creò le premesse di quella Guerra gotica in conseguenza della quale gli Ostrogoti scomparvero definitivamente: il governo bizantino gli aveva concesso il diritto di occupare i territori italiani ed essi vi avevano istituito il più grande dei Regni romano/barbarici. Dopo Teodorico, la corona era stata cinta dal cugino Teodato che, a fronte dell’aperta tendenza filobizantina di Amalasunta, reggente per il figlio Atalarico, alla morte di costui l’aveva fatta arrestare; deportare sull’isola Martana nel lago di Bolsena ed assassinare.

    Il Generale sbarcò in Sicilia alla testa di soli quindicimila uomini; prese Siracusa e Palermo; puntò su Messina e Reggio e proseguì verso Nord attaccando Napoli e Roma, ove spazzò le insistenti incursioni di Vitige subentrato al detronizzato Teodato e sposato a Matassunta, figlia della Sovrana uccisa. Com’era prevdedibile, dopo alterne vicende, nel 538 anche i Capitolini lo salutarono come liberatore ed egli si dispose, per la prosecuzione della campagna, all’attesa di guarnigioni di rinforzo: nell’attesa, ligio alle prescrizioni imperiali, spogliò delle insegne e della dignità pontificia Silverio.

    L’elezione di costui, figlio legittimo di Papa Ormisda ed amico di Teodato, era stato contestata dall’ Episcopato orientale su pressione di Teodora. Egli, infatti, pur di non sconfessare il predecessore e pur di tener fede alle risoluzioni del Concilio di Calcedonia, si era rifiutato di reinsediare al Patriarcato di Costantinopoli Antimo, già scomunicato per eresia e cacciato da Agapito I. La sua posizione era stata, inoltre, aggravata da una lettera con la quale garantiva a Vitige il possesso di Roma.

    Per quanto, recatosi in Oriente, ottenesse da Giustiniano un generico impegno alla revisione del caso, la tiara cinse il capo di Vigilio che, intercettata la nave su cui egli viaggiava, lo fece deportare sull’isola di Palmarola ove si spense forse assassinato. Nel frattempo, nel 539, i rinforzi sollecitati da Belisario giunsero con i Generali Mundila e Narsete ma la poderosa offensiva allestita per il centro/Nord, nell’intento di sottrarre Milano agli Ostrogoti, fu condizionata da contrapposizioni riferite alle strategie da adottarsi e si risolse in una immane catastrofe: i Milanesi, non opportunamente difesi dai circa ottocento uomini di Mundila, cedettero alla pressione di trentamila Goti comandati da Uraia e, capitolati per fame, furono passati a fil di spada.

    Narsete fu richiamato a Costantinopoli; Mundila fu spedito a Rimini; a Belisario non restò che ripiegare su Ravenna ove catturò Vitige. Fu in quel contesto che l’ammirato rispetto degli Ostrogoti si spinse ad offrirgli la corona dell’Impero d’Occidente che, in un periodo in cui l’autoproclamazione o l’elezione in campo veniva facilmente ratificata, fu lealmente respinta: il Generale mandò il Re barbaro e la sua famiglia come trofeo di guerra alla Corte bizantina.

    Lungi dall’apprezzare il gesto l’Imperatore, nel quale albergavano mediocri sentimenti di irriconoscenza e diffidenza, allarmato ed ingelosito dal successo del suo referente, lo richiamò in Oriente; lo impegnò contro i Persiani; rifiutò di riconoscergli gli onori dovuti e non consentì l’esposizione dell’ingente tesoro ostrogoto recuperato alla sua Corona.

    Naturalmente, l'assenza di Belisario dallo scenario italiano produsse i suoi effetti e, fra il 541 e il 542, mentre le rivalità interne all’esercito bizantino consentivano ai Goti di riorganizzarsi e di acclamare Badùila, detto Totila, la sua campagna siriana si concludeva con un nuovo successo: a margine delle operazioni militari, egli stesso stipulò una tregua e, previo versamento di cinquemila libbre d’oro, persuase i nemici a non attaccare il territorio d’Oriente per i cinque anni successivi.

    Spadroneggiando sul territorio senza alcun timore degli avversari, Totila comprese che non avrebbe vinto la guerra senza l'appoggio delle popolazioni locali: in mancanza del consenso dei Latifondisti e dell’ Aristocrazia, puntò sui ceti rurali dotandoli di una riforma agraria egalitaria che gli valse la possibilità di inoltrarsi fino a Napoli, prudentemente eludendo Roma ove la Chiesa vigiliana parteggiava apertamente per l’Impero.

    L’evidente precarietà politica e la consapevolezza di avere affidato le sorti del suo espansionismo a personaggi inadeguati indussero Giustiniano a ricorrere nuovamente al vecchio Generale. Ligio al dovere, egli tornò in Italia nel 544 con l’incarico di sciogliere Roma dal nuovo assedio e di liberare Assisi e Spoleto, mentre la proposta di pace avanzata da Totila attraverso il cardinale Pelagio veniva respinta: nel 547, ancora vittorioso inviò a Costantinopoli le chiavi della città e si accinse ad istituire l’Esarcato per contenere le incursioni di Totila che, ormai, disponeva del controllo di tutto il Nord.

    L’ulteriore trionfo, però, fu ancora una volta corroso dai sospetti e dall’invidia: Giustiniano ignorò anche le sue pressanti richieste di rinforzi, fino a compromettere l’esito della guerra e a consentire a Totila di riprendere Roma.

    L’evento, tutt’altro che imputabile alla condotta di Belisario, fu pretestuosamente impugnato: nel 548, l’ Imperatore lo destituì; lo sostituì con l’ambiguo eunuco armeno Narsete; lo umiliò con l’infamante e artificiosa accusa di tradimento e lo fece arrestare.

    L’incriminazione fondava su una sostanziale divergenza di opinioni: il Generale mirava a rendere l’Italia territorio dell’Impero, mentre Giustiniano voleva trasformarla in un semplice dominio. L’incomprensione avrebbe potuto essere ripianata se non avesse su essa pesato la condotta subdola e istigatrice di Narsete.

    Il prosieguo dell’attività bellica fu affidato a Germano, nipote di Giustiniano e sposo di Matassunta. Tuttavia, nel 551, egli morì e fu Narsete a marciare su Roma alla testa di un imponente ed eterogeneo esercito; ad ottenere la resa dei Goti; a sconfiggere e a ferire a morte Totila, a Gualdo Tadino.

    Ma questa volta, non ci furono esultazioni: l’eunuco agì da cinico vincitore, consentendo alle sue legioni di cedere ad azioni di ripugnante e brutale violenza sulla già sofferente popolazione.

    Belisario, invece, perdonato e mandato a combattere i Bulgari, si consegnò alla sua più drammatica stagione: avvelenato da un incontenibile astio, nel 562 dopo avergli affidato il comando delle guardie Imperiali per difendere Costantinopoli anche dagli Unni, il Sovrano lo rimise sotto processo per il disonorevole reato di corruzione.

    L’imputazione, del tutto infondata, fu probabilmente avvalorata da Procopio di Cesarea che, incaricato dell’inchiesta, la concluse con un verdetto di colpevolezza e con una condanna al carcere.

    Ma era davvero troppo: il Senato insorse indignato e Giustiniano fu costretto a liberarlo; a riabilitarlo ed a riammetterlo nelle sue funzioni.

    L’ultimo scorcio della sua vita, cessata nel 565, fu trascorso in quel dorato isolamento dal quale lo trasse successivamente la letteratura. Quel rigore professionale coniugato ad ingiustizie subìte in un mondo sanguinario e corrotto ne fece, infatti, l’emblema dell’Uomo d’Onore la cui complessa vicenda ispirò molte opere: dal poema bizantino Racconto del mirabile uomo chiamato Belisario, pervenuto in tre redazioni la più importante delle quali è quella di Rodi Emanuele Georgilla Limenite, alla tragedia El ejemplo major de la desdicha di Antonio Mira de Améscua; dal dramma Bélisaire di Sthéphanie Félicité Ducrest de saint-Aubin de Genlis, all’opera omonima di Gaetano Donizetti.
     
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  15. TullioConforti
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    http://cronologia.leonardo.it/storia/tabello/tabe1584.htm


    SOTTO L’ALBERO DELLA GOMMA...

    C’era una volta una bellissima città, ai margini di una grande foresta. In questa città le facciate dei palazzi, bianchi come la neve, erano adornate di smalti preziosi, le fontane zampillavano acqua cristallina che riempiva le vasche dove nuotavano pesci esotici, e la gente era lieta e sorridente. Là vivevano molti uomini ricchi e rispettati, che avevano ai loro ordini servitori e guardie... E la fiaba potrebbe andare avanti così.
    Per molti era davvero una fiaba la città di Manaus, nell’Amazzonia brasiliana. Ma era una fiaba tremendamente vera, che faceva crescere in sé stessa i semi della sua rovina. Manaus, la capitale del lusso più sfrenato, delle stravaganze di ogni genere, dello spreco ostentato come segno di potenza, era cresciuta sotto la spinta dei guadagni favolosi prodotti dal commercio della gomma.

    A cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del Novecento la richiesta di gomma aveva preso a crescere in misura esponenziale. Iniziava nel mondo l’era dell’automobile, e se le prime vetture adottavano ancora ruote di legno da carrozza, nel 1895 i fratelli Michelin avevano dimostrato, gareggiando nella corsa Parigi-Bordeaux-Parigi con una Panhard dotata di "pneumatici", che quegli strani tubi di gomma, fino a quel momento usati solo per le biciclette, erano ben in grado di sopportare il peso di un autoveicolo, migliorandone anzi le prestazioni.
    L’Amazzonia deteneva il monopolio naturale della gomma grezza vegetale, richiesta da ogni parte del mondo. Trecento milioni di alberi, sparsi su oltre tre milioni quadrati di foresta vergine rappresentavano una ricchezza che sembrava illimitata. E alla conquista di quella ricchezza si erano gettati in molti. Manaus, sorta sulle rive del Rio Negro, uno dei principali affluenti del Rio delle Amazzoni, era il cuore pulsante di quel monopolio. A Manaus non si parlava che di due cose: gomma e danaro.

    E per la gomma e il danaro si consumarono crimini atroci, riducendo in vera e propria schiavitù migliaia di indios, abitatori di quelle foreste in cui l’uomo "civilizzato" non si sarebbe mai avventurato, se non sotto la spinta irresistibile dell’avidità. Utilizzati come lavoratori con regole e salari che ne facevano dei forzati, gli indios pagarono col loro sangue le ricchezze dei magnati della gomma: ogni tonnellata di gomma esportata, si sarebbe calcolato alcuni anni dopo, costava la vita di sette indigeni.

    Le grandi piantagioni si trovavano in territori sterminati in cui nessuna autorità esercitava alcun potere. Alcune di esse, sul fiume Putumayo, sorgevano in una zona che, essendo oggetto di un’annosa disputa territoriale tra Brasile e Colombia, era di fatto terra di nessuno. In questa zona fondò il suo impero il più feroce tra i magnati della gomma: Julio Cesar Arana, peruviano. Uomo impenetrabile, questo despota cinico e spietato non si fermò davanti a nulla, neanche davanti ai peggiori delitti, per realizzare i suoi fini.

    La Compagnia da lui fondata, e di cui fu sempre il "dominus" assoluto, adottò dei metodi di lavoro e di disciplina tali da causare, come si accertò nell’inchiesta che fu il preludio al crollo del suo impero, la morte di almeno ventimila indios. Un conto preciso non fu mai possibile, perché i "selvaggi" non avevano un’anagrafe. (in pratica tutti clandestini).

    Vivevano in modo primitivo in tribù sparpagliate nell’immensa foresta, ed erano gli unici in grado di lavorare in un clima insopportabile per l’uomo bianco. (i bianchi quei lavori non li volevano più fare.) E se agli uomini veniva offerto lavoro, magari per sedici ore al giorno, la civiltà offriva anche alle donne un’attività (cioè l'incremento della prostituzione che fu massiccio.): doveva pur esserci del materiale umano per i bordelli che servivano a consolare il personale di guardia, costretto ad una vitaccia, a lunghi mesi nella foresta, sparsi nelle diverse zone di estrazione della gomma. Gli indios erano per loro natura pacifici, ma alle volte potevano anche ribellarsi. Chi lo faceva una volta, non l’avrebbe mai più rifatto.

    Quando si alzarono i veli sui misfatti di Arana e dei suoi uomini, uno dei dati più sconcertanti era costituito dalle ingenti spese della Compagnia per l’acquisto di carabine Winchester. I machete e le fruste si trovavano invece già in loco, non c’era bisogno di importarli. Nato nel 1864 a Rioja, in Perù, Julio Cesar Arana aveva iniziato a lavorare a quattordici anni, aiutando il padre, cappellaio come la maggior parte degli artigiani locali. Ma il giovane Julio non si accontentava del tranquillo guadagno che l’attività di famiglia poteva portargli. Avido e disordinato lettore di tutto ciò che trovava, era roso dall’ambizione e cercava qualcosa "di più". Neanche l’attività commerciale intrapresa col cognato, pur molto fruttuosa, gli era sufficiente. A venticinque anni Arana, da pochi mesi padre, comprava la sua prima piantagione di caucciù a Yurimaguas, sul fiume Huallaga, uno dei mille affluenti del Rio delle Amazzoni.

    La gomma si stava rivelando l’affare del secolo e il giovane ambizioso peruviano non poteva restarsene fuori. Non fu che il primo dei suoi possedimenti. Doveva trovare una zona ancora inutilizzata, che potesse divenire il "suo" territorio; e la trovò in pochi anni sulle rive del Putumayo, portando poi la sede amministrativa dei suoi affari alla meta inevitabile: Manaus. A meno di quarant’anni Arana era già un uomo potente, a cui tutti davano il rispettoso titolo di "don", e che si distingueva nettamente dalla gran massa degli abitanti di Manaus.

    Manaus, come dicevamo sopra, era la città della fiaba, dove il danaro scorreva a fiumi, dove tutto era possibile. All’inizio del secolo il costo della vita nella capitale della gomma era il quadruplo rispetto a città come New York. Tutto era eccessivo, dal Teatro dell’Opera, al Palazzo del Governatore, alle ville di volgare lusso dei "colonnelli", come erano chiamati i grandi proprietari di piantagioni. Mentre nella maggior parte delle grandi città del mondo si usava ancora il tram a cavalli, questa città, che ogni giorno doveva contendere il territorio all’avanzata della vegetazione, si era dotata di venticinque chilometri di binari di tram elettrico.

    I locali notturni erano piuttosto locali permanenti, perché non chiudevano mai. I gaudenti avevano a loro disposizione ogni tipo di divertimento; a Manaus la prostituzione era ostentata sfacciatamente, da numerose professioniste del settore, giunte addirittura dall’Europa. Veniva importato di tutto, purché fosse superfluo, tanto la ricchezza non sarebbe finita mai. Arana si manteneva estraneo a questo clima di festa permanente: di carattere gelido, non frequentava alcun locale, non si concedeva divertimenti, né si poteva fare alcun pettegolezzo sulla sua vita privata. La moglie Eleonora e i figli erano, insieme agli affari, i suoi unici interessi. La sua casa era ricca, ma non sfarzosa; non era adornata di ceramiche o di smalti dorati, come era di moda. Sull’ingresso aveva fatto scolpire il suo motto: "Attività-Costanza-Lavoro".

    All’alba, quando dai bar si trascinavano gli ultimi ubriaconi, Julio Cesar Arana attraversava la città per raggiungere i suoi uffici. Era uno degli uomini più potenti dell’Amazzonia, voleva essere il più potente e non nascondeva il suo disprezzo per chi dissipava in divertimenti tempo e danaro. Un giorno la strada di quest’uomo, che col danaro aveva comprato anche la coscienza di tante autorità del suo paese, si incrociò con quella di un giovanotto sconosciuto, un americano ventenne, di nome Walter Ernest Hardenburg, che aveva il difetto di considerare la vita umana più importante del danaro, e che non si lasciava corrompere né intimorire. E per Arana fu l’inizio della fine.

    Toccò a lui, il peggiore ma non certo l’unico dei despoti della gomma, la parte del capro espiatorio: e fu quasi un’ironia del destino, perché Arana era anche il più intelligente tra i "colonnelli", e fu il primo ad intuire quando l’età dell’oro stava per finire. "Questa città è morta", diceva spesso, riferendosi a Manaus, mentre i suoi colleghi ironizzavano sulle notizie di qualche concorrenza che andava delineandosi dai prodotti di piantagioni asiatiche. I ricconi continuavano a brindare a champagne francese e uno dei gesti più "chic" era accendersi il sigaro bruciando banconote da dieci sterline; Arana invece capiva che cosa stava per accadere e aveva già iniziato a prendere le misure necessarie, trasferendo la sua famiglia in Europa e creando una società a capitale misto inglese-peruviano, che doveva essere il capolavoro truffaldino della sua perversa intelligenza.

    Ma per capire meglio le cause della fine di Manaus e del monopolio amazzonico, dobbiamo fare un passo indietro, portandoci per l’esattezza a Kew, in Inghilterra, il giorno di sabato 10 giugno 1876. Erano le tre del mattino, un’ora in cui il dottor Joseph Hooker, direttore dei Reali Giardini Botanici, non si aspettava certo di ricevere visite. Ma il suo indiscreto visitatore poteva giustificare un orario così poco "inglese", perché aveva portato sul suolo inglese settantamila semi di Hevea brasiliensis, il più pregiato tra gli alberi gommiferi dell’Amazzonia, ed era ansioso di consegnarli subito. Henry Alexander Wickham, questo era il nome del visitatore, era un giovane avventuriero che fino a quel momento era sembrato specializzato solo nell’iniziare imprese fallimentari; da anni aveva abbandonato l’Inghilterra, cercando fortuna in Nicaragua, in Venezuela e, infine, in Amazzonia.

    Estroso, genialoide, non mancava però di fascino e di iniziativa. Due anni prima era riuscito ad ottenere un modesto finanziamento dal Segretario per gli Affari Indiani, che da anni era interessato al problema della gomma: in India esistevano piante gommifere, ma erano di scarsa qualità. Inoltre le metodologie di estrazione del lattice portavano sempre alla distruzione della pianta. Il governo inglese intuiva che la gomma negli anni a venire sarebbe stata sempre più richiesta. Non erano ancora gli anni del boom, ma era necessario fare qualcosa per rendersi indipendenti dai mercanti dell’Amazzonia. E appunto a Wickham era stato affidato il compito di procurare i semi di quelle piante prodigiose. E Wickham c’era riuscito, con una romanzesca impresa di contrabbando. Sotto le cure del dottor Hooker iniziarono così le sperimentazioni, prima in serra e poi trasportando esattamente millenovecentodiciannove pianticelle fino a Colombo, nel Ceylon, alla ricerca dei terreni e dei climi adatti in cui trapiantarle, per iniziare le vere e proprie piantagioni di alberi della gomma.

    Il compenso di Wickham fu di millecinquecento sterline, quattro scellini e due pence, comprensivo del rimborso spese. Con questa modesta cifra iniziava la rovina dell’Amazzonia: piante di trenta metri hanno bisogno di anni per crescere, ma crescono e producono nuovi semi, che generano nuove piante. Curate con rigore britannico le nuove piantagioni di Hevea brasiliensis proliferavano. Ci sarebbero voluti diversi anni per iniziare a far seriamente concorrenza alle piantagioni dell’Amazzonia, ma ormai la fine del monopolio era iniziata. La notizia dell’impresa di Wickham era stata accolta con risate sprezzanti alla Camera di Commercio di Manaus: i semi non si sarebbero adattati al clima dell’Asia, o le piante sarebbero inaridite e morte. Ma quando, qualche anno dopo, le prime notizie provenienti dalle coltivazioni britanniche erano di segno esattamente opposto, i brasiliani opposero ad una realtà che avanzava minacciosa la loro indole incurante e un poco facilona. Era molto più semplice chiudere gli occhi di fronte al pericolo, che affrontarlo. Era più facile per tutti, non per Arana. Lui, il "Re del Putumayo", si preparava ad un’altra delle molte battaglie che aveva sostenuto, con l’incrollabile certezza di poter anche questa volta vincere.

    Quando iniziò la sua attività nel settore della gomma il giovane Arana dimostrò subito come intendeva il rapporto con i sottoposti. Nella sua prima piantagione, quella di Yurimaguas, assoldò come raccoglitori di gomma una ventina di "flagelados". Così erano chiamati i disperati che, a migliaia, si riversavano nella valle del Rio delle Amazzoni, richiamati dalle possibilità di lavoro promesse da un mercato in continua espansione. Erano i relitti di una società che fino a qualche anno prima contava un numero elevatissimo di disoccupati: uomini disposti a tutto per poter risolvere il problema della sopravvivenza, spesso abbruttiti dall’alcool e rassegnati ad un’esistenza poco più che animalesca. Erano insomma la mano d’opera ideale per un giovane imprenditore pieno di iniziativa e di voglia di arricchire molto rapidamente.

    La città dove normalmente si radunavano era Cearà, nell’arido nord-est del Brasile, la zona più povera di quel paese. Il costo infimo di quella mano d’opera giustificava il lunghissimo viaggio fino a Ceara che Arana fece col cognato Pablo, che lo seguiva docilmente in tutte le sue imprese. E i flagelados erano ben contenti di seguire chi offriva lavoro; non sapevano che arrivando a Yurimaguas divenivano, per prima cosa, debitori verso Arana del costo del viaggio da Cearà. Ma non era che l’inizio di una catena di debiti destinata a non spezzarsi mai. Entrando nella baracca che costituiva l’ufficio della stazione commerciale ogni flagelado riceveva da Arana le provviste per tre mesi: cibarie, secchi e recipienti per la raccolta del lattice, un machete, un fucile. Il tutto valeva circa cento lire del tempo, ma sui libri contabili di Arana accanto al nome di ogni dipendente era segnato un debito iniziale di duemila lire; ed era un debito che ogni lavoratore non poteva onorare se non ipotecando a favore del padrone la propria prestazione nel raccolto della gomma, praticamente un salario che non avrebbe mai riscosso.

    Arana sapeva fare i conti molto bene e aveva studiato con cura quel sistema. Alla fine di ogni trimestre il flagelado avrebbe avuto bisogno di nuove provviste, ma non era quasi mai in grado di raccogliere una quantità di gomma sufficiente a coprire il debito precedente. E così accendeva un secondo debito, cui sarebbe seguito un terzo, e un quarto e così via. I flagelados lavoravano in zone acquitrinose, spesso infestate dalla malaria; alla raccolta del lattice seguiva il lavoro di vulcanizzazione, eseguito con una cottura di circa tre ore del materiale raccolto nella giornata, posto in grossi recipienti in cui bisognava girare di continuo una pala: la gomma, cuocendo, si raccoglieva sulla pala, fino a diventare una grossa palla nerastra di quasi un quintale di peso. Quello era il prodotto finito che il flagelado doveva caricare sulla sua canoa, per portarlo fino al magazzino di Arana.

    Ogni chilogrammo di gomma vergine valeva circa dodici lire; Arana accreditava ad ogni raccoglitore, a seconda delle capacità, da venticinque centesimi a una lira, né si assumeva, come abbiamo visto, alcuna spesa, perché tutto ciò che veniva dato al lavoratore per svolgere la sua opera era segnato a suo debito. Quel sistema di sfruttamento aveva consentito di accumulare enormi ricchezze, ma per Arana era ancora troppo lento. E infatti la piantagione di Yurimaguas non fu che l’inizio di una strada che doveva portarlo, come vedevamo, fino al territorio inesplorato del fiume Putumayo. Ma fu comunque un inizio molto istruttivo. Il giovane peruviano capì alcune cose essenziali: più raccoglitori lavoravano, più il guadagno aumentava; col sistema di pagamento che abbiamo visto, non esisteva certo il problema di assumersi dei costi di personale troppo onerosi. C’era però un altro onere per il "datore di lavoro": bisognava avere molto personale di guardia, perché spesso i lavoratori, disperati per le condizioni inumane in cui vivevano, cercavano di fuggire. E questo era davvero scorretto, perché non si fugge finchè non si saldano i debiti. Inoltre i disperati spesso cercavano rifugio nell’alcool, e in preda alla sbornia rischiavano di ritrovare un minimo di coraggio e di ribellarsi. Allora un buon fucile calibro 44, in mano ad una guardia decisa e senza scrupoli, erano l’unico argomento valido.

    Per avere molti lavoratori, non c’era problema: bastava rivolgersi alle tribù di indios che popolavano la vallata del Putumayo. Erano tanti, non erano dediti all’alcool come i flagelados, erano per loro natura docili e sottomessi. Restava il problema del pagamento del personale di guardia; ma anche qui la genialità di Arana aveva pronta la soluzione. Nell’immensa estensione della valle del Putumayo le varie stazioni erano affidate a responsabili il cui compenso era in tutto, o in buona parte, su base provvigionale. Quanta più gomma si raccoglieva, tanto più elevato era il compenso del capo della stazione, ed erano fatti suoi i modi con cui la produzione veniva assicurata. Arana era ormai un grande imprenditore, e accampava diritti su un territorio più grande della Francia.

    Per difendere questi diritti disponeva di ventitrè motolance da carico armate di mitragliatrice e di millecinquecento uomini, dotati di carabine Winchester e pistole Colt, che esercitavano sulla zona un potere assoluto e inappellabile. Gli indios addetti alla raccolta arrivarono ad essere diecimila. Nulla poteva scalfire quella potenza e Arana si preoccupava di ricavarne la maggior ricchezza possibile il più rapidamente possibile, conscio, come vedevamo sopra, che la stagione dell’oro avrebbe avuto presto la sua fine. Perciò Julio Cesar Arana era intento ad allargare verso l’Europa i suoi interessi, ottenendo un finanziamento di sessantamila sterline dalla Banca del Messico di Londra e costituendo nella capitale inglese la Peruvian Amazon Company, a capitale misto inglese e peruviano, una società in cui attirò alcuni dei "bei nomi" della City, affascinati dal magnetismo del peruviano e dalle prospettive di ricchi dividendi. "Bei nomi" i quali non sapevano che dietro l’affare c’era una revisione contabile effettuata da controllori addomesticati i quali avevano nascosto un credito ipotecario della moglie di Arana su tutte le proprietà della Compagnia.

    Mentre Arana intesseva tutte queste trame il cui unico fine era di assicurare un ricco avvenire alla sua famiglia e a sé stesso, sul fiume Putumayo una piroga scivolava silenziosa, cercando un punto di approdo. A bordo c’erano due giovanotti americani, che dopo aver lavorato per quindici mesi come tecnici delle ferrovie della valle del Cauca, in Colombia, spinti dal desiderio di avventura e dalle voci del favoloso sviluppo delle zone gommifere avevano intrapreso il viaggio verso l’Amazzonia, decisi ad arrivare a Manaus, con la speranza di trovare lavoro come tecnici della nuova linea ferroviaria che era in progetto sul Rio Madeira. Le paghe nella nuova Eldorado, avevano saputo, erano circa quattro volte quelle normali. I due avventurosi naviganti si chiamavano Perkins e Hardenburg. Ora cercavano un approdo perché Perkins era in preda ad un attacco di malaria: aveva bisogno di cure e di poter riposare qualche giorno all’asciutto. L’imbarcazione era difficile da manovrare. Hardenburg non poteva contare sull’amico, che giaceva a prua in preda alla febbre, e fini per incagliarsi in un bassofondo, proprio sulla proprietà di un colombiano, Jesus Lopez, proprietario di una piccola piantagione di gomma che conduceva personalmente, aiutato da una trentina di lavoranti indios.

    Qui i due amici fecero diversi giorni di sosta forzata, in attesa che passasse l’attacco di malaria che aveva colpito Perkins. E in quei pochi giorni Hardenburg venne a conoscenza di una realtà sconvolgente, che tanto più appariva incredibile ad un giovane idealista come lui, in cui lo spirito di avventura si univa con la convinzione che il progresso e la civilizzazione non potessero che portare del bene all’umanità. Dapprima incredulo davanti ai racconti dei colombiani e degli indios che erano al loro servizio (Perù e Colombia erano in uno stato di permanente attrito e quindi era possibile che i colombiani parlassero male dei peruviani per ragioni politiche), Hardenburg si sarebbe poi dovuto ricredere quando cadde lui stesso nelle mani di Miguel Loayza, capo della stazione di El Encanto, nel territorio del Putumayo. Loayza era il più feroce dei mercenari al soldo di Arana; la sua stazione era una delle più produttive dell’impero del magnate peruviano. Era lui l’inventore di quello che veniva chiamato "il marchio di Arana": il segno indelebile lasciato da cento frustate sul corpo degli indios che non effettuavano un raccolto giornaliero in linea col "budget" della stazione. Chi sopravviveva a questo tremendo trattamento era un monito vivente per gli altri.

    Chi non sopravviveva... beh, nell’ impenetrabile giungla non era davvero difficile far sparire i cadaveri. Questi potevano venire anche fatti a pezzi e dati in pasto ai cani, oppure bruciati. Ma si parlava anche di indios bruciati vivi alla stazione di Matanzas, oppure del capo della stazione di Ultimo Retiro che si divertiva a bendare gli occhi delle ragazze indie, con cui si era prima sollazzato, e a farle correre davanti a lui usandole come bersaglio per il tiro a segno con il suo Mannlicher... Prima di cadere lui stesso prigioniero degli uomini di Arana, Hardenburg era, come dicevamo, incredulo. Possibile che venissero commessi crimini così atroci, che sadici assassini potesse fare il loro comodo senza che alcuna legge li bloccasse? Mentre l’amico Perkins giaceva ancora in preda alla febbre malarica nella casa dell’ospitale Jesus Lopez, una sera, cenando, presente anche un amico di Lopez, David Serrano, proprietario della piantagione confinante, il giovanotto americano esternò i suoi dubbi.

    "Francamente signori, mi pare che quanto mi è stato raccontato da voi e dagli indios al vostro servizio sia un poco esagerato. Possibile che i peruviani che lavorano in questa zona siano tutti dei demoni? Non c’è di mezzo la vecchia inimicizia tra i vostri due paesi? E infine, la legge non interviene mai, la polizia non...?". Hardenburg non finì la sua frase. Si era accorto che con la sua domanda aveva fatto calare il gelo sulla riunione conviviale.

    Serrano aveva la mascella serrata, si sarebbe detto che trattenesse a stento le lacrime: "Don Jesus, sono in casa vostra. Ma se voi mi consentite, vorrei rispondere io a questo giovane." Jesus Lopez assentì con un cenno del capo e Serrano iniziò un racconto agghiacciante. Raccontò di come sei mesi prima una squadra di uomini di Loayza si era presentata alla sua piantagione, per riscuotere un credito che Arana vantava verso di lui. Poiché non era in grado di pagare, la sua giovane moglie india fu trascinata fuori dalla casa, violentata da quei bruti, mentre lui stesso era costretto a guardare la scena. Serrano raccontava, e ormai le lacrime scendevano liberamente sul suo volto indurito da anni di vita all’aperto.

    "Dopo questa orribile violenza, portarono via mia moglie e il mio figlioletto di sei anni. Mia moglie venne messa nell’"harem" di Loayza, e il bambino usato come schiavo per i servizi di cucina... se sono ancora vivi, l’unica speranza che ho di rivederli è di riuscire ad accumulare abbastanza danaro per riscattarli..." Ora Serrano singhiozzava senza più alcun ritegno. Hardenburg balbettava delle scuse, lui non poteva immaginare, non voleva offendere tanto dolore. Ma la polizia, la legge, cosa facevano? Fu Jesus Lopez a rispondere, con un sorriso amaro: "Figliolo, nell’Amazzonia vi è una sola legge: quella del fucile! E delinquenti del genere, come volete che considerino i lavoranti indios? Sapete qual’ è la loro normale frase? Ve la dico subito: son animales, no son gentes. Chi avrebbe crisi di coscienza a tirare il collo a un pollo, o ad ammazzare un maiale?"

    Hardenburg era sconvolto. Ma due giorni dopo queste rivelazioni, mentre Lopez era occupato nelle piantagioni con i suoi lavoranti e i due americani stavano preparando i bagagli per riprendere il loro viaggio, una squadra di uomini armati della stazione di El Encanto fece irruzione nella proprietà. Pretendevano un indennizzo perché, a loro dire, uomini di Lopez erano sconfinati nelle proprietà di Don Julio Arana. Non trovando il padrone si impadronirono di tutto il magazzino: il guardiano non poteva nulla contro dieci fucili puntati. E poi trassero in arresto Perkins e Hardenburg, "in nome della Compagnia Peruviana della Gomma". Hardenburg raccontò in seguito che era convinto che lui e il suo amico uscirono vivi dalle grinfie di Loayza solo grazie ai loro passaporti americani.

    Il feroce mercenario temeva troppi pasticci a far fuori due cittadini degli Stati Uniti. Ma i pochi giorni di prigionia che passò alla stazione di El Encanto (dove Loayza disse loro che li tratteneva "per proteggerli da eventuali violenze dei colombiani") gli furono sufficienti per vedere tante atrocità consumate contro i lavoratori-schiavi indios, da decidere che la sua vita era a una svolta.

    Quando Loayza si decise a liberarli, Hardenburg non si dolse della decisione dell’amico Perkins che, sconvolto da queste esperienze e spossato dalla malaria, non desiderava che tornare a casa, negli Stati Uniti. Salutò affettuosamente l’amico, e poi si mise in viaggio per Manaus: voleva far sapere al mondo in quali modi i magnati della gomma, e in particolare Julio Cesar Arana, erano riusciti a costruire i loro imperi economici. A Manaus Hardenburg passò invano quasi un anno, per rendersi conto che nessuno voleva mettersi contro Arana. Don Julio possedeva tutto, aveva spie dovunque. I suoi crimini erano noti, ma cosa si poteva fare contro l’uomo più potente dell’Amazzonia, amico personale del Presidente del Perù, consocio del Governatore di Manaus? La pelle premeva a tutti e Hardenburg impiegò tutti i suoi risparmi, accumulati dando lezioni private di inglese, per pagarsi il viaggio a Londra.

    Testardo come un mulo, sperava che gli inglesi, coinvolti da Arana nella Peruvian Amazon Company non restassero insensibili al racconto del sangue con cui erano bagnati i dividendi che la società, ormai quotata alla Borsa di Londra, distribuiva ai suoi azionisti. E a Londra la tenacia del giovane americano fu finalmente premiata, trovando finalmente nel reverendo David Harris, presidente dell’Associazione per i diritti umani e contro lo schiavismo un interlocutore attento. Al primo incontro Hardenburg era rimasto in verità dubbioso: i modi flemmatici di quel prete trentacinquenne contrastavano con l’impeto dell’americano. Ma ben presto Hardenburg si rese conto che il reverendo Harris era sì flemmatico, ma anche inarrestabile e implacabile quando arrivava alla convinzione che un caso era degno di attenzione. Ed era anche astuto: seppe giocare abilmente sul fatto che sudditi della Corona erano coinvolti con Arana, almeno a livello di interessi finanziari, in un caso dei più atroci di violazione dei diritti umani.

    L’associazione presieduta da Harris era molto influente e godeva dell’appoggio della stessa Corona: e si giunse ad una inchiesta parlamentare, il colpo che Hardenburg attendeva. Erano passati ormai sei anni da quando gli sgherri di Arana lo avevano imprigionato, ma le immagini degli indios frustati, mutilati, trattati come animali, erano ancora vive nel suo ricordo, insieme ai mille racconti e testimonianze che aveva raccolto, tutte di una monotona atroce somiglianza. "Son animales, no son gentes". Mentre la stampa inglese si gettava sul caso, facendo sapere al mondo i crimini legati all’arricchimento dei magnati della gomma, mentre i governanti corrotti dai soldi di Arana non potevano più far finta di non sapere nulla, le leggi di mercato provvedevano a spazzar via il monopolio dell’Amazzonia. Ormai le piantagioni asiatiche erano a regime e producevano una gomma che, con la stessa qualità di quella amazzonica, costava però il trenta per cento in meno. Dal 1911 al 1913 i fallimenti non si contarono più a Manaus; i più grandi "colonnelli" cadevano come foglie.

    Alfredo Arruda si sparava un colpo in testa dopo che la Banca del Brasile aveva confiscato tutto il suo magazzino. Waldemar Scholz fuggì da Manaus, colpito da un mandato di cattura per bancarotta: il suo cadavere fu trovato qualche giorno dopo nella giungla: anche lui aveva preferito un colpo di pistola al crollo di tutto il suo mondo. Joao Antunes non si uccise: vegetò per alcuni anni, facendo il venditore ambulante in una Manaus che era ormai un misero paesino in cui la foresta tropicale si stava riprendendo pian piano la sua rivincita. Le ricche prostitute occidentali erano state tra le prime a fiutare il vento infido e ad imbarcarsi per l’Europa. Ora le strade di Manaus offrivano lo squallido spettacolo di ragazze che si vendevano per poche lire, per un pezzo di pane. Gli sgherri di Arana non sfuggirono al castigo. Le autorità colombiane e peruviane si ricordarono all’improvviso della legge. Loayza, Normand, O’Donnell, e altri feroci assassini finirono i loro giorni nelle scomode prigioni del Perù, della Colombia e della Bolivia. Un altro dei sadici capi, Abelardo Aguero, venne ucciso in uno scontro a fuoco dai poliziotti colombiani che erano venuti ad arrestarlo.

    Arana Don Julius Cesar Arana, dopo aver tentato invano di salvare la faccia davanti alla Commissione della Camera dei Comuni, che comunque non aveva i poteri per agire contro di lui, cittadino peruviano, tornò a Manaus e il 26 giugno 1914 chiuse definitivamente i suoi uffici. Ormai la gomma amazzonica di prima qualità era crollata a due scellini e nove pence alla libbra: solo cinque anni prima il suo valore era di dodici volte superiore. Privo dei suoi sgherri, con un’immagine distrutta davanti al mondo, l’ex imperatore del Putumayo scomparì: si parlò di suicidio, si disse che era impazzito. La moglie Eleonora, a Ginevra, non rilasciò mai alcuna dichiarazione. Ormai il mondo aveva altro di cui occuparsi. In Europa si stavano mobilitando gli eserciti. Si preparava la grande mattanza tramandata ai posteri come Prima Guerra Mondiale. E sugli imperi della gomma calò il silenzio. Forse Arana sopravvisse a lungo al suo crollo. Forse, come tramandano alcune leggende degli indios, fu troppo cattivo per meritare il riposo eterno, e il suo fantasma potrebbe ancora aleggiare in cerca di un’impossibile pace su quella impenetrabile giungla, dove lui tolse la pace a tanti innocenti.

    di PAOLO DEOTTO


     
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